Vi ricordate il romanzo del 1979 di Douglas Adams Guida galattica per gli autostoppisti?

Iniziava con la chimera di una tecnologia immaginaria, e liquidava la Terra come un pianeta le cui forme di vita «sono così primitive da credere ancora che gli orologi da polso digitali sono un’ottima invenzione». Be’, in fondo stiamo parlando delle prime fasi della rivoluzione informatica. Da allora abbiamo compiuto passi avanti significativi, al punto che per il momento la grande idea tecnologica del 2015 è un orologio digitale. Questo però ci avvisa quando dobbiamo alzarci in piedi, se siamo rimasti seduti troppo a lungo! E va bene, sto vaneggiando. In effetti ci troviamo davanti a un interrogativo: tutti sanno che viviamo in un’epoca di trasformazioni tecnologiche incredibilmente rapide, che tutto cambia. Cosa accade, però, se quello che sappiamo è sbagliato?

Non voglio fare il bastian contrario. Studiando i dati su produttività e redditi, un numero in aumento di economisti si chiede se la rivoluzione tecnologica non sia stata gonfiata in maniera fuorviante. E alcuni esperti di tecnologie condividono il timore. Ci era già successo in passato. La Guida galattica per gli autostoppisti fu pubblicata nel periodo del «paradosso della produttività», durante il quale la tecnologia sembrò fare rapidi progressi – con i personal computer, i telefoni cellulari – malgrado la crescita economica fosse fiacca e i redditi stagnanti. Si avanzarono ipotesi per spiegare quel paradosso, e la teoria più attestata fu che inventare una tecnologia e imparare a utilizzarla sono due cose diverse. Diamogli tempo, dissero, e i computer finiranno col produrre beni (e servizi). L’ottimismo sembrò giustificato quando nel 1995 la crescita della produttività decollò. Ecco di nuovo il progresso! Ecco di nuovo l’America, agli avamposti di quella rivoluzione.

Poi, lungo la strada della rivoluzione tecnologica, accadde una cosa bizzarra: come abbiamo scoperto in seguito, non siamo tornati a un rapido progresso economico. Anzi: una ripresa c’è stata, una sola, dieci anni fa. Da allora viviamo nell’epoca di iPhone, iPad e iQuelchetipare, ma crescita e redditi sono tornati alla fiacchezza degli anni ’70-’80. L’era digitale che perdura da quarant’anni appare deludente.

Le nuove tecnologie hanno avuto titoloni nei notiziari, ma hanno portato modesti risultati economici. Come mai? Una spiegazione possibile è che le cifre non colgono la realtà, specialmente i vantaggi dei nuovi prodotti e servizi. Per quanto mi riguarda, mi piace la tecnologia che mi consente di seguire in streaming i miei musicisti preferiti, ma il Pil non ne tiene conto. Eppure, si suppone che la nuova tecnologia debba essere redditizia per imprese e consumatori, e pertanto dovrebbe incentivare la produzione di articoli tradizionali, oltre che innovativi. Gli aumenti della produttività nel decennio 1995-2005 ci furono in ambiti quali la gestione magazzino, e si presentarono tanto nelle aziende hi-tech o in attività non tecnologiche, quanto nella vendita al dettaglio. Al momento non constatiamo nulla di tutto ciò. Un’altra spiegazione è che le nuove tecnologie sono più divertenti che indispensabili.

Peter Thiel, uno dei fondatori di PayPal, ha fatto notare che ci sarebbero piaciute le auto volanti, mentre ci siamo trovati Twitter e i suoi 140 caratteri. Thiel non è l’unico a suggerire che la tecnologia informatica che entusiasma le classi twittanti potrebbe non essere di così gran beneficio per l’economia. Cosa sta accadendo, quindi, alla tecnologia? Non lo so, non lo sa nessuno. Forse i miei amici di Google hanno ragione e Big Data trasformerà ogni cosa. Forse le stampanti 3D porteranno la rivoluzione. Forse, invece, siamo diretti verso un altro grosso “boh”.

Ciò di cui sono sicuro, tuttavia, è che dobbiamo ridurre questa esagerazione. Parlare a rotta di collo di come la tecnologia cambi tutto potrebbe sembrare innocuo. Invece, funge da elemento di distrazione da questioni più ordinarie e da pretesto per gestirle male. Se ripensiamo agli anni Trenta, scopriamo che persone autorevoli affermarono le stesse cose che si dicono adesso: il problema oggi non riguarda il ciclo economico; siamo alle prese con un cambiamento tecnologico radicale e con una forza lavoro priva delle competenze necessarie ad affrontare la nuova epoca. Poi, però, grazie alla Seconda guerra mondiale, ottenemmo la spinta della domanda di cui avevamo bisogno e i lavoratori che erano ritenuti privi di qualifiche si rivelarono utili per l’economia moderna. Eccomi qui a rievocare ancora una volta la storia. Possibile che io non capisca che oggi è tutto diverso?

Capisco perché alla gente piace ripeterlo, ma non per questo diventa vero.

(LA Repubblica, 26 maggio 2015)

Articolo di Paul Krugman*, Repubblica

*Premio Nobel per l’Economia, oggi è docente di Economia e Relazioni Internazionali all’Università di Princeton.

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