1929: Franz Werfel, l’amico di Kafka, è a Damasco. Il nazismo non è ancora giunto al potere, ma per chi sa leggere la realtà, il pericolo per il popolo ebraico e per l’umanità intera è grande. A Damasco Werfel non volta lo sguardo di fronte alla vista dei bambini armeni, affamati e mutilati, che per un tozzo di pane consumato lavorano come fossero degli schiavi nelle fabbriche per la produzione di tappeti. Di fronte al dolore senza nome di un’intera nazione annientata, decide di raccontarne la storia. Raccontare è un modo per riannodare i fili che legano i morti ai vivi e questi alla speranza di un futuro possibile. L’opera di Werfel è un successo editoriale. Il racconto epico della resistenza di cinquemila armeni rifugiatisi sul massiccio del Mussa Dagh, a nord di Antiochia, fa sognare. In un mondo che si prepara a devastazioni e lutti che faranno impallidire gli orrori della Prima guerra mondiale, il libro è un grido. In un mondo abbrutito, che corre verso una nuova guerra ancor più devastante, è un grido affinché i più deboli non siano abbandonati.
Cristiani in terra musulmana, ridotti per secoli a una condizione di dhimmi, popoli dominati e sconfitti (che in base alla legge islamica potevano al più aspirare alla protezione in cambio di uno statuto di subalternità politica e religiosa), gli armeni avevano guardato al processo di modernizzazione dell’Impero ottomano e agli editti di emancipazione come a una possibile nuova era di libertà. Fu una grande illusione. Nella visione del nazionalismo panturco, che aveva molti punti in comune con il modello organicista tedesco e panslavo, la presenza di una folta minoranza armena in un’area del territorio era «un’ossessione».
Con l’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi centrali, tra l’aprile e il maggio 1915, la violenza contro la popolazione armena assume il carattere di un programma politico finalizzato a «unificare» il territorio della Turchia su basi «etniche» e «religiose». Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, circa cinquecento esponenti dell’élite armena sono incarcerati e uccisi. Tra il maggio e il luglio del 1915, spalleggiati da bande curde formate da ex detenuti, le distruzioni si concentreranno sulle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Harput.
Annunciata da un ordine, la deportazione fu estesa a donne, vecchi, bambini, sacerdoti. «Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi», si era raccomandato il ministro Taalat Pascià in un dispaccio al governatore turco di Aleppo nel settembre 1915. I pochi che si erano rifiutati di eseguire gli ordini del governo centrale furono sostituiti da funzionari più solleciti. Nel corso della deportazione i maschi dovevano morire, le donne (se belle e giovani) potevano salvarsi «convertendosi». Le chiese e i monasteri furono abbattuti e distrutti, i beni e le terre confiscati dallo Stato. Le persone derubate degli stessi vestiti che portavano addosso nel loro doloroso viaggio verso la morte. Preoccupati della «lentezza» con cui procedeva la «soluzione» del «problema» armeno, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal ordinarono nel gennaio del 1916 ai governatori e ai capi di polizia di eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi meno «costosi», i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici.
Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.200.000 persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. Strutturalmente collegato alla nascita della nuova nazione turca, il genocidio è tutt’oggi negato. Per la narrativa turca, che può contare in Occidente su forti interessi economici e geopolitici (la Turchia è stata nel corso della Guerra fredda uno dei perni del sistema di difesa occidentale contro l’espansionismo sovietico) la morte di un milione e duecentomila civili armeni furono il «risultato» di turbolenze politiche di un periodo particolarmente cruento della storia, in cui la Turchia si trovò a combattere duramente su più fronti ed ebbe molti morti. Le autorità turche ammettono la morte di solo trecento mila persone. Nel loro diniego sono disponibili al massimo ad esprimere delle «condoglianze». Possono al più parlare di «dolore condiviso», «per le violenze subite» dagli armeni, mettendo sullo stesso piano le perdite umane subite dalla Turchia in guerra, con una politica di distruzione sistematica e pianificata contro popolazioni civili inermi.

(Avvenire, 29 giugno 2015)

Articolo di David Meghnagi, AVVENIRE

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