LONDRA – Nel mese di dicembre di quest’anno i leader delle maggiori potenze mondiali si riuniranno a Parigi per la Conferenza delle Nazioni Unite dedicata ai cambiamenti climatici, in cui si cercherà (ancora una volta) di negoziare un accordo globale per ridurre le emissioni di gas serra. Nonostante l’inevitabile senso di déjà vu che condividono i negoziatori nei loro sforzi per raggiungere un compromesso, la nostra opinione è che non dovrebbero rinunciarvi. Quali che siano le considerazioni politiche o economiche, una cosa è certa: se le temperature globali aumentano ancora di oltre 2 °C rispetto ai livelli preindustriali, le conseguenze saranno catastrofiche per il pianeta.

Ma la sfida non sarà certo risolta definitivamente riducendo le emissioni. In effetti, anche se lavoriamo per una transizione verso un mondo più pulito entro il 2050, dovremmo comunque rispondere al problema legato alle insaziabili necessità di energia a lungo termine di una popolazione mondiale in forte espansione: una necessità a cui le energie rinnovabili da sole non possono offrire risposte efficaci. È per questo che è necessario investire sin da ora in altre tecnologie per poter integrare le fonti rinnovabili ed essere in grado di garantire l’energia ci cui ci sarà bisogno per i molti secoli a venire. E una delle opzioni più promettenti è la fusione nucleare: il processo che alimenta il sole e tutte le stelle.

La fusione nucleare, che è un processo alimentato prevalentemente da litio e deuterio (un isotopo dell’idrogeno), due elementi chimici che si trovano entrambi in abbondanza nell’acqua di mare e nella crosta terrestre, potrebbe costituire un’importante fonte di energia a basse emissioni di carbonio. Una centrale elettrica a fusione utilizzerebbe solo circa 450 kg di carburante all’anno, senza produrre alcun tipo di inquinamento dell’aria e senza causare alcun rischio di incidenti con conseguente contaminazione radioattiva dell’ambiente.

Ma mentre il processo di fusione ha la capacità di produrre una certa quantità di energia (16 milioni di watt, per l’esattezza), gli scienziati devono ancora creare una “combustione” attraverso un processo di fusione autosufficiente. A differenza della fissione nucleare, che è passata dai laboratori alla rete di distribuzione di energia elettrica nell’arco di due decenni, la fusione costituisce un vero e proprio rompicapo.

Il problema è che la fusione consiste nell’assemblare due nuclei carichi positivamente. Tuttavia, come dimostra la scienza di base, le cariche dello stesso segno si respingono mutualmente. Solo a temperature estremamente elevate (oltre 100 milioni di gradi Celsius, quasi dieci volte più del Sole) i nuclei possono viaggiare a una tale velocità che finiscono per fondersi tra di loro.

Gli scienziati negli ultimi 60 anni hanno cercato di capire quale fosse il metodo migliore per riprodurre in laboratorio tali condizioni. Attualmente il dispositivo più affidabile da questo punto di vista è il cosiddetto “tokamak”, una bottiglia magnetica in cui il combustibile, mantenuto alla temperatura di circa 100-200 milioni di gradi Celsius, fonde rilasciando enormi quantità di energia.

Naturalmente, riuscire a immagazzinare il sole in una bottiglia è una sfida enorme, soprattutto se si considera che i sistemi devono essere progettati per creare energia elettrica ad un prezzo ragionevole per il consumatore. Ma in un angolo soleggiato del sud della Francia, un mega progetto globale comincia a prendere forma. Per la prima volta sarà possibile testare questa tecnologia su scala industriale, attraverso la creazione della prima combustione a fusione controllata.

Nel reattore ITER tutto è grande. Sarà tre volte più pesante della Torre Eiffel. Il materiale dei magneti superconduttori è due volte la lunghezza dell’equatore terrestre. E il suo costo complessivo è di oltre 15 miliardi di euro (16,8 miliardi dollari), vale a dire uno dei più grandi sforzi scientifici internazionali nella storia. I partner di ITER (Cina, Unione Europea, India, Giappone, Russia, Corea del Sud e Stati Uniti) rappresentano la metà della popolazione mondiale. E in caso di successo, il reattore produrrà una potenza di fusione pari a mezzo gigawatt e spianerà quindi la strada ai reattori commerciali.

Ma il tokamak non è l’unico candidato nella corsa alle centrali da fusione. Il National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Laboratory in California ha raggiunto risultati impressionanti sparando laser ad altissima potenza su delle capsule di carburante e innescando delle vere e proprie reazioni di fusione. Altrove, in particolare negli Stati Uniti, le aziende finanziate dai privati che operano in questo campo sono spuntate come funghi, create grazie alla consapevolezza che possano rappresentare una sorta di sacro Graal dell’energia. Tuttavia, essendo il progetto più avanzato, il tokamak sembra essere ancora il candidato più accreditato, anche se la concorrenza non mancherà di stimolare l’innovazione e il progresso.

In molti oggi scoraggiano gli investimenti nella fusione nucleare, sostenendo che poiché la tecnologia è ben lungi dall’avere immediate ricadute sul mercato, dovremmo indirizzare le risorse finanziarie verso opzioni energetiche sufficientemente mature. I critici hanno ragione su una cosa: poiché non si potrà mai arrivare alla fusione se non su larghissima scala, gli investimenti necessari sono certamente di grande entità.

Nel 1970 alcuni ricercatori americani hanno stimato che collegare una centrale a fusione alla rete di distribuzione di energia elettrica avrebbe richiesto investimenti da 2 a 3 miliardi di dollari all’anno in ricerca e sviluppo fino al 1990-2005 (a seconda della quantità di sforzi impiegati). Essi hanno inoltre considerato un livello minimo di investimento al di sotto del quale non si sarebbe mai arrivati a costruire una centrale elettrica a fusione. Non è difficile constatare che bilanci per la ricerca sulla fusione nucleare sono rimasti al di sotto di questi standard minimi per 30 anni.

Ma il potenziale della fusione è troppo importante per rinunciare al progetto. E infatti, i progressi in questi ultimi anni (nonostante la mancanza di investimenti adeguati) smentiscono i suoi detrattori. Nei centri di ricerca di tutto il mondo abbiamo macchine che raggiungono temperature di fusione che permettono di moltiplicare le nostre possibilità tecnologiche. L’esperimento ITER, che avrà inizio nei primi mesi del 2020 potrà mettere a frutto questi progressi effettuando la tanto attesa combustione da fusione. A quel punto non resterà che un’ultima tappa in vista dell’obiettivo finale: raccordare l’energia elettrica da fusione con la rete elettrica a un prezzo accessibile.

Oggi dovessimo escludere la fusione nucleare le opzioni energetiche a disposizione delle generazioni future sono molto limitate, il che finirà per avere implicazioni profondamente negative per i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Lev Arcimovic, l’inventore del tokamak, ha detto che la “fusione sarà pronta quando la società ne avrà bisogno”. Speriamo che abbia ragione. Ma il mondo dovrà intensificare i propri investimenti in questa tecnologia. Ne va del nostro futuro.

(Steven Charles Cowley/Project Sindacate 16 luglio 2015)

* Steven Charles Cowley, autore di questo articolo, è a capo dell’Autorità per l’Energia Atomica del Regno Unito (UKAEA) ed è docente di Fisica all’Imperial College di Londra. È anche Presidente del Corpus Christi College dell’Università di Oxford.

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