Il dilemma di Blaise Pascal
Spunti di riflessione nati dal dialogo tra un professore cristiano e i suoi studenti cinesi.
«Mosè o la Cina», si domanda Blaise Pascal. «Chi è più credibile?» (Pensées, Brunschvicg 593). Non si tratta di capire chi ha ragione, tra Mosè o gli archivisti cinesi, sulla cronologia dei primi avvenimenti della storia del mondo, di cui gli uni e gli altri si proclamano testimoni. Dietro alla querelle storiografica, che permette al libertino di diventare seguace di Pascal e della sua Apologia del cristianesimo si profila il più profondo dialogo mai intrattenuto dal cristianesimo con una cultura non biblica: «Mosè o la Cina»?
Propongo di cambiare una sola parola a questa frase per comprenderla oggi in tutta la sua forza: «Mosè “e” la Cina». Si tratta in questo faccia a faccia, che sembra in effetti sproporzionato, in quanto tra un uomo (o un libro) e un Paese, non di una lite, ma di un incontro. Non di una muraglia da difendere, ma di una nuova frontiera da abitare.
Non sono un sinologo e il mio recente soggiorno di tre mesi a Shanghai, come professore invitato dalle facoltà di filosofia di Fudan e Jiao Tong non mi conferisce alcun titolo per cui io possa ragionevolmente parlare dell’argomento Cina. Sono un sacerdote cattolico, insegnante di filosofia e di teologia, che ha imparato al collegio dei Bernardini a Parigi a trasmettere la fede ai giovani di oggi ascoltando la voce dello Spirito Santo nell’esperienza dei ricercatori e nel sapere dei professionisti di qualsiasi provenienza.
L’esperienza di vita e di insegnamento che ho fatto, per la seconda volta quest’anno, presso giovani studenti e insegnanti cinesi, a Shanghai, mi ha aperto gli occhi su alcune realtà che mi sembrano troppo trascurate, se non ignorate dal pubblico anche colto dei nostri Paesi europei.
Come mi ha detto un professore di storia di una quarantina d’anni: la Cina ha gestito in modo molto diverso in passato le relazioni con l’Occidente, chiudendosi a volte alla sua influenza, a volte sottomettendosi alla sua dominazione militare e industriale. Oggi si tratta di fare esperienza di un vero incontro. Certamente, il mondo internazionale è stato modellato, sul piano culturale, politico ed economico, da coloro che lo abitavano prima di noi. La storia recente dimostra che abbiamo bisogno di aprirci al mondo. Intendiamo entrarci e dare il nostro apporto.
L’élite studentesca di Shanghai appartiene già a molti mondi diversi, trasferendosi oggi un anno o due all’estero per il tempo del master o oltre, per un dottorato, tracciando così in anticipo il cammino che prenderanno più o meno velocemente le università delle altre megalopoli cinesi.
Come ho potuto fare lezione a studenti dai quali tutto sembra separarmi, il passato, come il presente e il futuro?
I nostri rispettivi Paesi sembrano così stanchi di impegnarsi, così impauriti di andare incontro all’ignoto e abitare il futuro. In realtà dall’anno scorso ho scoperto che la ricerca compiuta a Parigi sulle frontiere della Chiesa e della società contemporanea mi aveva insegnato a scoprire questioni e sentieri di riflessione che non sono propri di una cultura, ma di tutte le culture quando sono messe alla prova dai mutamenti tecnologici e dalla globalizzazione del mondo di oggi. Più che di una cultura internazionalizzata, ciò di cui è testimone e agente questa giovane élite è un’internazionalizzazione delle questioni, questioni che si pongono a una profondità umana quasi transculturale, a causa dell’importanza dei cambiamenti già in corso. La globalizzazione del mondo è prima di tutto una globalizzazione delle questioni antropologiche. Non serve a nulla lamentarsi delle difficoltà presenti, ma bisogna prendere misura del loro carattere globale e trarne profitto per creare utili reti di incontri e di ricerca. Mi sembra vitale che la Chiesa ne prenda coscienza, come è vitale per i responsabili del mondo secolare.
(Antoine Guggenheim/L’OSSERVATORE ROMANO, 22 agosto 2015)