Sharing economy: opportunità e nuovi modelli di business
Da Project Syndacate il contributo del premio Nobel per l’Economia Michael Spence.
Quando fu fondata Amazon nel 1994 ed eBay l’anno seguente, l’idea era quella di sfruttare appieno la connettività di Internet per creare mercati nuovi e più efficienti. All’inizio voleva dire nuove modalità per acquistare e vendere libri e altri articoli da collezionare; ma ora l’e-commerce è ovunque e offre ai consumatori oggetti nuovi e usati – diventando una forza globale sul fronte della logistica e della vendita al dettaglio. Allo stesso modo, le aziende di sharing-economy oggi sono appena agli albori, ma un giorno i loro servizi saranno molto diffusi.
Per il momento, la maggior parte delle persone ha sentito parlare di Airbnb, il servizio online per affittare stanze e appartamenti. La società conta poco più di 600 dipendenti ma un milione di unità disponibili per l’affitto, rendendola più vasta delle più grandi catene di hotel del mondo. È ovvio che quanto offerto da Airbnb è diverso da ciò che viene fornito dagli hotel; ma se Airbnb offrisse opzioni come i servizi di pulizia o i pasti, potrebbe farlo diventare un concorrente più vicino di quanto si possa inizialmente immaginare.
L’intuizione (ovviamente a posteriori) alla base del modello di Airbnb – e la fiorente sharing-economy in generale – è che il mondo è pieno di attività e risorse sotto-utilizzate. Quanto tempo trascorriamo effettivamente utilizzando gli oggetti che possediamo – che siano auto, biciclette, appartamenti, case vacanza, strumenti o yacht? Quale valore generano di notte gli uffici o le aule scolastiche?
Le risposte variano a seconda dell’attività, della persona, della famiglia o dell’organizzazione, ma i numeri di utilizzo tendono ad essere sorprendentemente bassi. Una risposta recente per le auto era l’8%, e anche questo potrebbe sembrare alto per chi non deve fare il pendolare.
Ma quei numeri stanno cambiando, dal momento che Internet consente ai nuovi modelli di business creativi di incrementare non solo l’efficienza di un mercato ma anche l’utilizzo di varie attività. Si fanno centinaia di esperimenti. Chiaramente non tutti riusciranno a sperimentare la sorprendente crescita di Airbnb e Uber. Alcuni, come Rent the Runway per gli abiti e gli accessori dei designer, potrebbero trovare nicchie redditizie; altri semplicemente non ce la faranno.
Le piattaforme digitali che agiscono da base per tutto l’e-commerce devono soddisfare due sfide correlate. La prima è di produrre un effetto nella rete, così che acquirenti e venditori riescano a trovarsi con frequenza e con una rapidità tale da rendere un’impresa sostenibile. La seconda è che la piattaforma deve creare fiducia – nel prodotto o nel servizio – da entrambe le parti della transazione.
La fiducia è fondamentale per avere effetto nella rete; ne deriva quindi la necessità di creare sistemi di valutazione bidirezionali in grado di incoraggiare acquirenti e venditori a diventare utenti frequenti della relativa piattaforma. I piccoli attori possono così agire nei grandi mercati, perché – nel tempo – diventano quantità note. La forza di queste piattaforme deriva dal superamento delle asimmetrie informatiche, aumentando drasticamente la densità di segnale del mercato.
Per incoraggiare gli utenti di e-commerce poco frequenti, gli innovatori e gli investitori stanno esplorando nuove strade per combinare i database di valutazione delle piattaforme separate, talvolta rivali. Qualunque siano le questioni legali e tecniche da superare, lungo la strada troveremo sicuramente il tipo di consolidamento dati già praticato internamente da giganti del retail quali Amazon o Alibaba.
Ovviamente, possono esserci altri incentive a supporto della “buona” condotta, come sanzioni e depositi (per le biciclette prese in prestito per un periodo prolungato e mai restituite, ad esempio). Ma le misure punitive possono facilmente portare a dispute e inefficienza. Ridefinire i sistemi di valutazione, invece, sembra più promettente.
L’invito a sfruttare le risorse sotto-utilizzate non dovrebbe limitarsi alle attività materiali. Il McKinsey Global Institute ha recentemente studiato gli approcci basati su internet al mercato del lavoro e la sfida relative all’incontro tra la domanda di talenti e competenze e l’offerta.
Alcuni modelli di condivisione – forse quasi tutti – si affidano sia all’utente che ai beni: ad esempio, una persona e la sua auto, computer, macchina da cucire o cucina (per i piatti a domicilio). Questo ritorno alle attività a domicilio precedenti alla moderna produzione è possibile oggi perché Internet abbatte i costi di dispersione che un tempo obbligavano a concentrare il lavoro nelle fabbriche e negli uffici.
È inevitabile che nascano dei problemi di carattere normativo, come accade ora a Uber che sta passando dalla California all’Europa. I taxi e le limousine sono per certi versi protetti dalla concorrenza perché hanno bisogno della licenza per l’attività; sono altresì regolamentate per la sicurezza dei clienti. Poi arriva Uber che invade il loro mercato con un prodotto differenziato, soggetto soprattutto alla propria normativa per veicoli e autisti. Nel mentre, minaccia di abbassare il valore delle licenze esattamente come farebbe qualsiasi altra decisione ufficiale pronta ad emettere nuove licenze. Non sorprende che i tassisti di Parigi e di altre città francesi – finora tutelate dalla concorrenza – abbiano protestato con tanta veemenza (e talvolta con violenza).
Un interrogativo pressante è quanto si farà coinvolgere dalla sharing economy il settore finanziario. I prestiti peer-to-peer e il crowdfunding rappresentano già nuove modalità per far incontrare mutuatari e investitori. Le questioni relative alla responsabilità e all’assicurazione dovranno essere affrontate in tutti i modelli di sharing-economy, soprattutto in quelli di tipo finanziario; ma queste difficilmente rappresentano ostacoli insormontabili.
La verità è che il processo guidato da Internet di sfruttamento delle risorse sotto-utilizzate – siano esse capitale fisico e finanziario o capitale umano e talento – è inarrestabile e in rapida accelerazione. Tra i vantaggi a lungo termine figurano non solo l’efficienza e i guadagni di produttività (abbastanza ampi da risultare nei macro-dati), ma anche in nuovi posti di lavoro, molto richiesti e che necessitano di una vasta gamma di competenze. Chi teme la forza dell’automazione che distrugge l’occupazione e sposta il lavoro dovrebbe guardare alla sharing economy tirando un lieve sospiro di sollievo.
(Michael Spence*/Project-Syndacate 28 settembre 2015)
* Michael Spence (Montclair, 7 novembre 1943) è un economista statunitense, insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica. Oggi insegna alla New York University.