La nostra memoria e quella del computer
Un’anticipazione della relazione del filosofo Remo Bodei, che interviene domenica 11 ottobre alla Scuola Normale Superiore in occasione dell’Internet Festival 2015 che si sta svolgendo in questi giorni a Pisa.
Una delle differenze più importanti tra la memoria umana è quella registrata dai moderni strumenti informatici consiste nel fatto che le nostre memorie sono naturalmente esposte alla dissoluzione e alla mutilazione e nessuna forma di identità personale o collettiva può essere indefinitamente preservata nel tempo senza venir modificata. Questi fenomeni – troppo frequenti per essere accidentali – possono procurarci quella malinconia che sorge quando contempliamo le rovine delle memorie e degli affetti altrui o l’accumularsi dei simboli ripudiati che sono lasciati come testimoni di vite, fedi e situazioni precedenti. Nel lungo corso degli eventi umani quanti sono stati i popoli dissolti o sterminati? Quante le lingue morte, le città scomparse, le esistenze che di sé non hanno lasciato o nessuna traccia o segni sbiaditi. Perché gli individui e le comunità improvvisamente dimenticano il loro passato o ci rinunciano, specie dopo un cambio di regime, una rivoluzione o una netta discontinuità con il passato?
Per rispondere occorre, dapprima, invertire la domanda, non chiedendoci tanto perché gli individui dimenticano, ma piuttosto perché ricordano. La mia ipotesi è che – dopo tanti cambiamenti che vanno oltre la normale soglia di tolleranza di un sistema – la dimenticanza non è semplicemente ascrivibile (in senso negativo) all’ipocrisia, all’opportunismo camaleontico, al desiderio di dimenticare esperienze altamente spiacevoli. Questo non significa affatto escludere l’esistenza di uomini «buoni per tutte le stagioni», né la più o meno conscia propensione in tutti gli individui ad adattare ad hoc la realtà ai loro desideri.
La dimenticanza non rappresenta solo una forma di damnatio memoriae e di amnesia-amnistia verso il passato. Non si tratta di una «cancellazione» reale o simbolica di nomi, date e circostanze – come facevano gli antichi romani nelle epigrafi – o in una semplice deprivazione di ricordi. Dipende anche (in senso positivo) dal collasso di quelle energie che (attivamente) formano e promuovono memoria storica e senso di appartenenza a una comunità e che (passivamente) la mantengono e la preservano. Napoleone diceva che «durante una rivoluzione si dimentica ogni cosa».
La dimenticanza coinvolge istituzioni collettive, abitudini, festività e traumi, per non parlare delle capillari e quasi invisibili forme di indottrinamento e imposizione di sistemi di valori. In questi sistemi l’esperienza individuale è pubblicamente commisurata con il «tempo monumentale» delle commemorazioni, delle cerimonie solenni e degli anniversari.
L’esistenza degli individui è anche connessa al pulsare dei ritmi «storici» e agli eventi «spartiacque» condivisi da comunità generazionali relativamente ampie (per esempio, il 25 aprile del 1945, l’assassinio di Kennedy, il «settembre nero», la caduta del muro di Berlino, l’11 settembre 2001).
L’oblio è prodotto dalla scomparsa e dal venir meno di forze che tengono in vita, danno legittimità e giudicano le nostre memorie condivise e le nostre credenze. Perciò a prima vista sembra essere una perturbazione, una confusione o una perdita di memoria ufficiale e pubblica.
In ultima istanza, è un fattore nella produzione di significato. Parafrasando Michelangelo, dimenticare, così come con le statue, scolpisce gli eventi per mezzo della «rimozione».
Possiamo confrontare la memoria collettiva con una vecchia locomotiva fuori moda, che funziona solo se la si alimenta con il carbone, come a dire, che se non la si alimenta in maniera continua si spegne. Da questa prospettiva l’oblio è una ipoalimentazione temporanea o permanente di ricordi.
Quando le tradizioni s’interrompono o si modificano, anche i loro più solidi e coerenti criteri di selezione cominciano a perdere forza e a collassare. Ma se è vero che nessuno è capace di vivere in una realtà completamente senza senso, allora quando frammenti solo accennati del passato recente rimangono, l’identità tende a rinnovare se stessa ricomponendo quei frammenti in figure fantastiche o miti. Disgraziatamente disinfettare il passato da tutti i suoi fantasmi è un obiettivo impossibile da raggiungere.
Assistiamo a un paradosso: alla consapevolezza non solo della possibilità di redimere il passato, ma anche della sua effettiva mutevolezza. Questa apparente anomalia può essere spiegata in due modi.
Agostino, ad esempio, mette a confronto la memoria con l’amore e il perdono come opposti alla legge del taglione dell’Antico Testamento: «occhio per occhio, dente per dente». La memoria come amore – senza cancellare gli eventi passati – mette fine al circolo senza termine di risentimento e dipendenza da un passato immodificabile. Rompe il «doppio legame» e riscrive il passato con un solo attacco, modificando il suo peso. Se riusciamo a disinnescare l’esplosivo del passato e a distribuire la sua energia potenziale negli interessi del presente vivente – se perciò l’individuo smette di essere angosciato dai suoi ricordi – allora egli può affermare di aver redento il passato.
Proviamo a compiere il prossimo passo. Integrando quanto appena detto, si può osservare che non è tanto l’esattezza degli eventi passati ad essere messa in questione quanto piuttosto il loro significato e la possibilità di una loro riformulazione. Memoria e oblio, infatti, non rappresentano territori neutrali, ma veri e propri campi di battaglia in cui l’identità – specialmente l’identità collettiva – è decisa, messa in forma e legittimata. Attraverso una serie di difficoltà, gli avversari si appropriano dei loro patrimoni di eredità simbolica; ostracizzano o enfatizzano alcune caratteristiche a spese di altre, componendo un «chiaroscuro» che è relativamente ben adatto ai più pressanti bisogni del momento.
Consideriamo l’esempio più semplice. Dopo ogni guerra il passato è trascritto e trasfigurato dai vincitori in un modo molto diverso da quello dei perdenti. Anche questo caso non è senza complicità simmetriche – per esempio l’annullamento reciproco di memorie traumatiche e relativi sentimenti di colpa o l’attribuzione di criteri divergenti di rilevanza alle azioni compiute. Perciò gli americani commemorano il 7 dicembre del 1941, la data dell’attacco di Pearl Harbor, come «il giorno dell’infamia», mentre ignorano o ricordano, ma solo con molta riluttanza, il 6 agosto del 1945, la data della prima bomba atomica su Hiroshima.
(Remo Bodei/Internet Festival Pisa, 10 ottobre 2015, Repubblica)