Vita giovanile, formazione culturale ed esordio intellettuale di Henry Kissinger. La biografia monstre di Niall Ferguson su un europeo che ha rivoluzionato l’America.

È difficile dire quanto Kissinger, the Idealist. Volume I. 1923-1968 di Niall Ferguson (New York, Penguin Press, 2015), sia una biografia di Kissinger e quanto sia una rivisitazione critica della politica estera americana nel secondo dopoguerra. Ambedue le cose, sarebbe ovvio scrivere, ma non sarebbe sufficiente. Perché questa imponente, fondamentale opera di Ferguson scavalca proprio l’ovvio. La critica che Kissinger rivolse a molti aspetti della politica estera di Washington s’intreccia quasi naturalmente alle valutazioni di un grande storico e giornalista come Niall Ferguson senza tuttavia creare confusione di voci e impacci interpretativi. Era, insomma, impossibile che una personalità di studioso come quella dell’inglese restasse estranea all’oggetto della sua narrazione. Di più: riprendendo il giudizio stroncante di Christopher Hitchens, che aveva accusato Kissinger di crimini contro l’umanità, Ferguson afferma, senza mezzi termini, che “le capacità di Hitchens come storico sono tutte da dimostrare” e per gli altri critici di Kissinger, che spesso le loro feroci accuse “hanno il sottotono dell’antisemitismo”.

Heinz Kissinger proveniva da una famiglia di ebrei all’interno di una comunità stanziata in Germania sin dal 1528. Era una famiglia di patrioti che fuggì dalla Germania nazista il 30 agosto 1938, in tempo per evitare l’annientamento. La famiglia Kissinger si ambientò quasi subito a New York, “la più ebraica tra le città del mondo”, ma portando con sé i caratteri degli ebrei tedeschi: “Una disciplina esagerata nella vita quotidiana, l’amore per l’ordine sino all’eccesso e una profonda educazione umanistica”, qualità che furono indispensabili per la sua ascesa nella società e nella politica americane e che lo differenziavano nettamente dagli irlandesi-americani e dagli italo-americani. Frequentò il City College di New York e svolse regolarmente il suo servizio militare. Nonostante il suo accento, divenne un americano al cento per cento, anche in virtù degli eccellenti maestri che lo seguirono negli studi, tra cui, soprattutto, Fritz Kraemer e William Yandell Elliot.

Le profonde conoscenze filosofiche, in particolare della filosofia tedesca, posero subito Kissinger all’attenzione di Carl Friedrich, che lo ritenne in grado di contemperare i propri interessi di studioso con un’attenzione verso il farsi della politica internazionale. Lo stesso Ferguson scrive dell’history deficit proprio della gran parte dei policymaker americani, un deficit completamente estraneo a Kissinger, che lo poneva ben al di sopra di quasi tutti: un’affermazione francamente esagerata da parte di Ferguson. Comunque, questa cultura storica consentì a Kissinger una valutazione personale della Guerra fredda, diversa da quella corrente, perché intrisa di profonde conoscenze storiche e politiche europee che egli utilizzava anche sul piano dell’analisi psicologica degli attori internazionali e delle relazioni globali, come sarà per il caso della crisi di Berlino del 1961, che vedremo più avanti, ma che egli applicò in occasione della crisi di Corea del 1950.

Chiamato come consulente nell’Operation Research Office dell’Esercito (il primo incarico ufficiale), Kissinger produsse un report in cui parlava “dell’inseparabilità del comando militare dalle responsabilità per gli affari civili, e dell’importanza di porre particolare attenzione (su quest’ultimo aspetto), compreso l’utilizzo di ufficiali in grado di parlare nella lingua del posto”. Il report fu considerato molto importante dagli alti livelli dell’Esercito e, così, lo psychological warfare ebbe un posto di rilievo nella storia successiva degli impegni bellici americani.

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Nel 1952, diretta da Elliot, uscì la rivista “Confluence”, di cui Kissinger fu editor. Si trattò di un’esperienza fondamentale che contribuì a far conoscere Kissinger a livello internazionale, soprattutto in Europa. Infatti, lo scopo della rivista era di costruire una “confluenza” di intellettuali anti-comunisti in un laboratorio che si ponesse al di là della semplice propaganda post-bellica a favore dei principi della democrazia liberale e del libero mercato. Era un tentativo di costruire per la prima volta un progetto di cultural cold war, una fase d’impegno di scambio culturale e approfondimento di valori comuni che avrebbe accompagnato e intellettualmente sostenuto l’elaborazione delle politiche a difesa del “mondo libero”. Con quest’iniziativa, scrive Ferguson, “Kissinger tentava di avere un ampio spettro di punti di vista politici nelle pagine di ‘Confluence’”. E, in effetti, per quanto Ferguson affermi che “Confluence” “fu un fallimento” – giudizio alquanto ingeneroso – la rivista ebbe l’indubbio merito di coagulare un gran numero di intellettuali di matrice liberale intorno al comune compito di dare diffusione – al di là della propaganda – ai principi fondamentali della democrazia liberale e della lotta anti-totalitaria. Ferguson afferma che i critici di Kissinger lo accusarono di aver inventato una vera e propria “Cold War University”, accusa che si assommava a tutte le precedenti.

Nel 1954, Kissinger si addottorò con una tesi sulle vicende che precedettero e seguirono il Congresso di Vienna, tesi che divenne, tre anni dopo, un libro dal titolo “A World Restored: Metternich, Castlereagh and the Problems of Peace, 1812-1822”. Un libro chiave che deve essere considerato una sorta di manifesto del pensiero di Kissinger sulle relazioni internazionali. Il concetto di base di questo libro è che il Congresso di Vienna ristabilì un ordine europeo che durò sino alla Prima guerra mondiale. Al di là del fatto che i vecchi regnanti reazionari fossero tornati al potere, ciò che costituì una straordinaria novità nella storia europea fu che in quell’occasione fu firmato un accordo di stabilità continentale fondato sul trionfo della diplomazia, tema su cui molti anni dopo Kissinger avrebbe scritto un volume di primaria importanza, “Diplomacy”. “Il tema centrale del libro – scrive Ferguson – è il ruolo della forza nella diplomazia”. La vittoria sul campo dello schieramento anti-napoleonico doveva tramutarsi in una nuova stabilità da raggiungersi attraverso la diplomazia e da conservare con la diplomazia. La stabilità non è l’affannosa ricerca della pace, afferma Kissinger, ma di un consenso internazionale intorno a determinate convenzioni tra le grandi potenze, tra i più forti. Il conservatorismo di Kissinger è dunque questo: l’affermazione del principio di libertà “come volontaria accettazione dell’autorità”, scrive Ferguson. Nelle relazioni internazionali quest’autorità deve essere gestita dai più forti secondo un consenso da ricercare per via diplomatica: “Per Kissinger – scrive in sintesi Ferguson – il significato pratico dell’èra di Castlereagh e Metternich consisteva in questo: essi conseguirono una fattibile stabilità piuttosto che una pace perpetua”, stabilità che poi sarà definita balance of power.

 Con questo libro e con la sua successiva collaborazione con Foreign Affairs, rivista vicinissima ai centri di potere politico americano, Kissinger divenne un intellettuale pubblico, nello stesso tempo ammirato e odiato. E, in questa veste, egli criticò la politica di Eisenhower sulla “rappresaglia massiccia” nei confronti di Mosca, in quanto priva di qualsiasi credibilità, oltre che contraria alla sua visione della stabilità da ottenere per mezzo della diplomazia, ma da una posizione di forza, come avverrà negli anni 70 con la famosa triangolazione Washington-Pechino-Mosca. Kissinger riteneva che gli Stati Uniti dovessero far intendere a Mosca di potere, all’occorrenza, far ricorso a un uso limitato delle armi nucleari, al fine di spianare la via ad un accordo di stabilità, sempre tuttavia provvisorio.

Secondo Ferguson, il successivo libro di Kissinger, “Nuclear Weapons and Foreign Policy” (1957), dimostrava che le sue tesi erano fondate: “Il fatto che una limitata guerra nucleare non sia avvenuta durante la Guerra fredda non dimostra che le tesi di Kissinger fossero errate. Al contrario, il libro aveva chiaramente ragione nel senso che, dopo la pubblicazione, ambedue le superpotenze acquisirono una sostanziale capacità nucleare tattica e conservavano ancora tale capacità nei primi anni 80”. In definitiva, scrive ancora Ferguson, “la sostanza filosofica di ‘Nuclear Weapons’ è che una limitata guerra nucleare, cosa apparentemente abominevole, può essere il male minore se le alternative sono l’impotenza o l’annichilimento”.

Nel 1958 Kissinger era già una celebrità. L’anno successivo fu il delegato americano al Congresso Atlantico per il decimo anniversario della Nato. Continuava a scrivere importanti articoli su Foreign Affairs, letti con attenzione da intellettuali e policymakers. Nel 1961 pubblicò “The Necessity for Choice: Prospects of American Foreign Policy”, un libro che potremmo definire indirizzato al prossimo presidente americano e che l’avvicinò sempre più ai centri nevralgici del potere statunitense. La sua ascesa era irresistibile. Il libro era una sorta di promemoria per il nuovo presidente degli Stati Uniti affinché Washington varasse una nuova politica estera diversa da quella imbelle di Eisenhower. Scrive Ferguson, riassumendo la posizione di Kissinger: “Gli Stati Uniti mancavano di una dottrina strategica e di una coerente politica militare; le iniziative per il controllo delle armi contraddicevano la sua strategia nucleare; le sue alleanze erano frammentarie; e il suo programma di aiuti per i paesi in via di sviluppo non funzionava. (…) Gli Stati Uniti erano in ‘pericolo mortale’ di fronte a un attacco a sorpresa dei sovietici. Il mondo occidentale era ‘profondamente preoccupato’”. Kissinger suggeriva, in apparente contraddizione con le sue tesi precedenti, di ricostruire le forze convenzionali americane dalle fondamenta, in quanto la parità nucleare era ormai un dato di fatto, e di dare vita ad un accordo sulla non-proliferazione delle armi nucleari, accordo che si realizzò nel 1968, Johnson presidente. Kennedy varò la politica della “risposta flessibile”, che lasciò Kissinger insoddisfatto. Scrive Ferguson: “Il più grande difetto degli strateghi accademici degli anni 60 era il loro amore per l’astrattezza, portata agli estremi limiti nella teoria dei giochi. Kissinger, al contrario, voleva rendere più concreti i dilemmi dell’età nucleare”.

 Il 10 marzo 1961, scoppiata la crisi di Berlino, Kissinger sedette al National Security Council;  qualche giorno dopo, incontrò in un briefing del Dipartimento di Stato George McGhee, Henry Morgan, Charles Bohlen, Martin Hillebrand e, soprattutto, Dean Acheson, con il quale concordò su molte questioni. “Nella mente di Kissinger – riferisce Ferguson – uno showdown su Berlino era inevitabile per la semplice ragione che i sovietici lo volevano”. Non accadde nulla da parte americana; i sovietici costruirono il muro; la “risposta flessibile” andò a farsi benedire. “Per Kissinger – commenta Ferguson – l’esperienza era stata ‘kafkiana’. Non v’è dubbio che Kissinger avrebbe voluto, molto più di Kennedy, immaginare più una guerra per Berlino che un muro che l’attraversasse”.

Gli anni successivi alla breve parentesi kennediana rappresentarono per Kissinger un processo di avvicinamento ai gangli del potere politico. La crisi di Cuba intervenne a confermare le sue previsioni sull’inaffidabilità di Mosca sul piano della ricerca d’un accordo di stabilità. “La crisi dei missili a Cuba – scrive Ferguson – fu proprio quel tipo di ‘profonda crisi’ che Henry Kissinger aveva previsto durante la crisi di Berlino l’anno precedente”. Il comunismo, come il nazismo, era ancora in quella fase di certezza rivoluzionaria che non permetteva alcun accordo fondato sulla stabilità e sulla sua conservazione. Occorreva che gli Stati Uniti erodessero nel tempo il potere sovietico o che esso si erodesse dall’interno per ragioni di auto-consunzione. La qual cosa avvenne tra la fine degli anni 60 e gli inizi dei 70, quando Kissinger aveva compiuto con successo la sua ascesa e poteva, insieme a Nixon, iniziare una politica di erosione del potere sovietico in molti scacchieri cruciali dello scenario internazionale, anche con la complicità di Pechino. A conclusione del suo libro, Ferguson sostiene che “Kissinger era un idealista kantiano, non un idealista wilsoniano. (…) L’insistenza naïve sugli assoluti, così caratteristica della tradizione liberale della politica estera americana, era ‘una prescrizione per l’inazione’”. I fatti gli avevano dato ragione.

Antonio Donno, IL FOGLIO, 22 ottobre 2015

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