Raffaele La Capria sulle vicende del secondo conflitto mondiale sul fronte Est europeo narrate da uno dei più grandi scrittori del Novecento (dal “Corriere della Sera”).

Di Vasilij Grossman ho letto soltanto Vita e destino, il grande romanzo epico sulla guerra contro i tedeschi invasori e sulla battaglia di Stalingrado, ma mi è bastato per capire che Grossman, con quel libro, ha scritto una specie di Guerra e pace del nostro tempo, all’altezza, per la vastità della concezione, dei maggiori romanzi della letteratura russa.

Ora Adelphi ha pubblicato Uno scrittore in guerra, un libro bellissimo che contiene gli appunti di prima mano che Grossman scriveva per i suoi articoli di corrispondente dal fronte, e la prima impressione è che questi appunti buttati giù in fretta e a volte in situazioni difficili, sotto il fuoco nemico, sono già di una notevole qualità letteraria. Questo libro di appunti fa capire meglio chi era Grossman come uomo e come scrittore, e soprattutto come ebreo in un tempo in cui nell’Unione Sovietica essere ebrei significava essere perseguitati in vari modi; e le vicende della vita di Grossman qui narrate ce lo dimostrano. Se fosse stato per il potentissimo Mikhail Suslov presidente della sezione culturale del Comitato centrale del Partito comunista,Vita e destino avrebbe potuto esser letto solo nei prossimi duecento anni, in altri termini ne fu proibita la pubblicazione perché giudicato pericoloso.

vitadestino

Come in casi analoghi, il romanzo avventurosamente, per l’aiuto di fidati amici, trovò il modo di uscire dall’Unione Sovietica ed essere pubblicato all’estero ottenendo il successo e l’attenzione che meritava. Successo ed attenzione che ebbero, durante gli anni della guerra gli articoli che Grossman spediva ai giornali dal fronte. Si sentiva che in quegli articoli c’era la verità di un’esperienza vissuta esponendosi di persona. Ma nonostante la sua fama, l’ostilità del potere contro di lui si faceva sentire pesantemente, e quando la guerra finì, tutti i suoi libri precedenti furono tolti dalla circolazione, lui fu ridotto all’indigenza e fu aiutato dai pochi coraggiosi amici che gli erano rimasti. Affetto da un cancro allo stomaco, morì nell’estate del 1964.

Solo dopo aver letto Uno scrittore in guerra ho avuto un’idea più chiara delle grandi sofferenze patite dai popoli europei durante il conflitto, patite non solo dai russi che combattevano al fronte in condizioni spaventose di freddo, fame, pidocchi, pericolo continuo e morte, ma da tutti i popoli coinvolti nella guerra più feroce mai combattuta. Sofferenze inimmaginabili nel loro orrore se non ci fossero stati testimoni come Grossman, che hanno saputo raccontarle a rischio della vita. Di fronte a una figura di scrittore come la sua, si prova non solo ammirazione letteraria, ma un senso di compassione coinvolgente, quando si pensa alle tragiche vicissitudini che hanno accompagnato la sua vita in un’epoca di profonda umiliazione morale, sotto la spaventosa dittatura staliniana.

Si ha sempre la sensazione quando lo si legge che quello che lui scrive, prima ancora di essere letteratura, è vita vissuta, una testimonianza, una delle poche altrettanto dirette che abbiamo della guerra e delle sue infinite mostruosità. Sappiamo che lui, Grossman era lì, mentre dappertutto cadevano le bombe e i carri armati «come animali preistorici» avanzavano, che lui era lì e aveva sentito le grida dei tedeschi chiusi nei carri mentre il fuoco li arrostiva. «Dentro il carro armato i tedeschi gridavano, ah se gridavano! In vita mia non avevo mai sentito nessuno gridare così». E sembra di sentirle anche noi quelle grida agghiaccianti «che facevano rizzare i capelli in testa».

E Grossman era sempre lì, a Berlino, quando i soldati dell’Armata rossa entrati in città stupravano le donne tedesche ed entravano nelle case per depredarle di tutto, e distruggere con furia ogni cosa. Nessun aspetto atroce della guerra gli sfuggiva e lui lo raccontava attraverso le interviste che faceva ai soldati e ai comandanti. Le loro parole ci fanno capire lo spirito patriottico che animava ogni combattente, la ferocia, l’indifferenza di fronte alla morte propria e altrui, di fronte alle continue fucilazioni sul campo per le più lievi infrazioni disciplinari. Questo è il racconto di un soldato: «Il commissario ha letto la condanna. Lui aveva perso il controllo, piangeva, chiedeva di essere rimandato nella sua posizione… Poi il commissario ha chiesto: “Chi lo fucila?” Mi sono fatto avanti e lui si è gettato a terra. Ho preso il fucile di un compagno e gli ho sparato. “Non ha avuto pietà?”. Che c’entra qui la pietà?».

Appunto, con la stessa spietatezza lo scrittore porta la sua testimonianza: in una guerra come quella combattuta a Stalingrado tra russi e tedeschi la pietà non aveva più alcun senso. Sento che le mie parole non bastano a descrivere la particolarità, la semplicità, e la terribile immediatezza della scrittura di Grossman, e soltanto una serie di citazioni può darne un’idea. Il freddo, per esempio: «Sono stanco di tastarmi continuamente il naso, le orecchie per controllare se sono ancora al loro posto». E poi: «I nazisti avevano immerso ripetutamente un uomo in un buco praticato nel ghiaccio, sono poi fuggiti sotto il nostro fuoco d’artiglieria lasciando riverso per terra il loro uomo semicongelato e paralizzato dal terrore». I cani: «Alcuni cani sono bravissimi a distinguere gli aeroplani. Quando ci sorvolano i nostri, non fiatano. Se invece sentono gli aerei tedeschi, cominciano subito ad abbaiare, ad ululare, oppure si nascondono».

Berlino: «2 maggio, giorno della capitolazione di Berlino. Questa giornata nuvolosa, fredda e piovosa, segna la morte della Germania. Tra le rovine, in mezzo alle fiamme e al fumo centinaia di cadaveri sparsi per le strade. Cadaveri schiacciati dai carri armati, spremuti come tubetti… Cose terribili stanno accadendo alle donne tedesche. Un tedesco dall’aria istruita, la cui moglie ha ricevuta la visita dei nuovi arrivati, sta spiegando con gesti eloquenti e qualche parola di russo che la moglie oggi è stata già violentata da dieci soldati. La signora è presente».

Potrei continuare con le citazioni, ma credo di aver dato un’idea di come è scritto questo libro.

(Raffaele La Capria, Corriere della Sera 30 ottobre 2015)

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