Il monumentale studio del ricercatore risultò ben documentato e inaccettabile. Ma negli anni ‘70 era inaccettabile. Pansa e Pavone ne hanno seguito le orme.

Sono pochissimi i libri di storia diventati essi stessi un fatto storico. È il caso della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, uscita in otto volumi da Einaudi fra il 1965 e il 1997 (l’ultimo, postumo e incompleto). Più che una biografia è una storia del fascismo, e il grande merito di De Felice fu basare i suoi studi sui documenti e non su pregiudiziali ideologico/politiche, pro o contro. Sembra ovvio, trattandosi di storia, ma all’epoca non lo era. I primi tre tomi (Il rivoluzionario e Il fascista, dal 1883 al 1929) avevano semplicemente disturbato la dominante storiografia di sinistra. Il quarto ebbe un effetto dinamitardo: le quasi mille pagine di Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 1929-1936 uscirono nel dicembre del 1974 e la loro tesi di fondo provocò polemiche a non finire. Vi si sosteneva, e vi si dimostrava, che il regime godette per un lungo periodo di una straordinaria partecipazione popolare. Oggi è un dato acquisito (malvolentieri) anche dalla storiografia più schierata a sinistra, però a quei tempi De Felice venne addirittura accusato di filofascismo: lui, ebreo liberale che fino a allora si era occupato soprattutto della Rivoluzione francese. Visto che non tutti potevano affrontare quelle mille pagine, nel 1975 De Felice volle pubblicare Intervista sul fascismo (Laterza, a cura di Michael Arthur Ledeen), dove spiegava in sintesi il proprio pensiero, a partire dall’inedita distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento. Il primo ebbe sostanzialmente funzioni conservatrici, il secondo aveva forti aspirazioni di modernizzazione: «Il movimento è l’idea della realtà; il partito, il regime, è la realizzazione di questa realtà, con tutte le difficoltà obbiettive che ciò comporta».

E continua: «Con tutti i suoi innumerevoli aspetti negativi, il fascismo ebbe però un aspetto che in qualche modo può essere considerato positivo: il fascismo movimento aveva sviluppato un primo gradino di una nuova classe dirigente». Fondamentale è anche l’individuazione dell’elemento che distingue il fascismo dai regimi reazionari e conservatori, ovvero la mobilitazione e la partecipazione delle classi: «Il principio è quello della partecipazione attiva, non dell’esclusione. Questo è uno dei punti cosiddetti rivoluzionari; un altro tentativo rivoluzionario è il tentativo del fascismo di trasformare la società e l’individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata». In più De Felice sostenne, per primo, che fascismo e comunismo erano entrambi figli della rivoluzione francese, e avevano quindi un codice genetico simile. Per la sinistra era (non lo è più così tanto) un’affermazione inaccettabile. Il Pci aveva da poco lanciato l’idea del «compromesso storico» con la Dc e si sentiva minacciato nella sua egemonia culturale da un libro che appena dieci anni prima avrebbe semplicemente ignorato. L’unico comunista che difese, in parte, le posizioni di De Felice fu Giorgio Amendola, uomo coraggioso e onesto.

Riguardo agli effetti che ebbe il lavoro di De Felice, posso ricordare un episodio personale. Studiavo a Milano, quindi non ero un suo allievo quando nel 1974 mi laureai con una tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico: dove dimostravo appunto che Bottai era stato un modernizzatore e che erano esistiti una cultura fascista e intellettuali fascisti di valore. La tesi venne pubblicata nel 1976 addirittura da Feltrinelli, grazie a un direttore editoriale illuminato come Gian Piero Brega: non credo sarebbe stato possibile senza il varco aperto dal docente romano, ma l’accoglienza non fu diversa da quella del libro sul consenso.De Felice veniva cucinato a fuoco vivo e lento per avere sostenuto in sostanza che gli italiani erano stati fascisti. Nessuno riusciva a contestare seriamente le sue tesi, perché non si poteva, e però fioccavano allusioni e accuse sulla sua onestà intellettuale, sulle sue capacità storiografiche, sulle sue tendenze politiche: specialmente con quell’atroce sospetto di filofascismo. Fino a tutti gli Anni Settanta, infatti, fascista! era l’offesa più di moda e più violenta, tutto ciò che di male esisteva nell’universo era fascista, persino le prevaricazioni amorose e i comportamenti automobilistici. Dunque, per contrastare le tesi di De Felice si arrivò addirittura a sostenere che avrebbero finito per rafforzare il neofascismo italiano, ovvero il Movimento Sociale. I risultati delle elezioni politiche di quegli anni dimostrarono il contrario, per non dire che quasi vent’anni dopo il Movimento Sociale si autodissolse a Fiuggi e che il suo erede, Alleanza Nazionale, si sarebbe fuso con il liberale Popolo delle Libertà.

Agli storici i loro studi dovrebbero servire non soltanto per capire il passato, ma anche per interpretare il presente e intuire il futuro. Per i contestatori di De Felice non fu così. Lontani dal capire il presente e dall’interpretare il futuro, lasciarono a bande di studenti il compito di dare del fascista a uno storico più bravo di loro e rispolverarono per lui e per chi la pensava come lui un termine da tempo fuori moda e fuori uso: «revisionista». La definizione fu appioppata per la prima volta al socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein, che nel 1899 sostenne la necessità di rivedere alcune tesi di Marx (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, «revisionista» diventò sinonimo di eretico, nemico, e così furono bollati tutti i capi comunisti che accennarono a deviare dalla linea del Cremlino.Applicata agli studi è una definizione malsana, visto che uno storico, come ogni altro studioso, non può che essere revisionista. Qualsiasi scienza, qualsiasi attività umana progredisce in quanto non si accontenta dei risultati raggiunti. Cioè: se gli architetti non fossero revisionisti, staremmo ancora nelle grotte; se i medici non fossero revisionisti, saremmo ancora a farci operare dai barbieri. Gli storici devono essere revisionisti perché non si debbono accontentare di quello che è già acquisito. Sergio Romano nel 1998 pubblicò Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie), con una definizione esemplare: i revisionisti sono semplicemente «coloro che mettono in discussione, con nuovi documenti e nuove prospettive, l’antica versione di un avvenimento». Senza questo continuo andare oltre, la storia sarebbe ridotta a leggenda, cronaca o propaganda politica.

Purtroppo De Felice non fece in tempo a terminare i suoi studi, altrimenti avrebbe con ogni probabilità realizzato lui il nuovo filone di revisionismo sulla guerra civile 1943-45, inaugurato da Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri 1991) e proseguito da Giampaolo Pansa con Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer 2003). Due libri che hanno provocato le stesse polemiche del saggio sul consenso: a dimostrazione che De Felice vinse la sua battaglia, ma non la guerra contro chi guarda la storia con i paraocchi dell’ideologia. @GBGuerri

Giordano Bruno Guerri, IL GIORNALE, 5 novembre 2015

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