Morto Girard, genio cattolico che l’Europa non meritava
Antropologo-filosofo, con la teoria del “desiderio mimetico” spiegava con i conflitti e gli eccessi del mondo. Amore compreso. Si è spento il più grande dei cervelli in fuga.
René Girard era nato nel lontano 1923 nella già papalina Avignone, figlio di un bibliotecario anticlericale, ma per un genio cattolico, per il sommo genio cattolico del nostro tempo, non c’era spazio né in Francia né nel resto d’Europa e così dopo gli studi a Parigi dovette andarsene negli Usa, come tanti cervelli prima e dopo di lui. Il suo nome è legato alla prestigiosa università di Stanford, località californiana dove ha insegnato e dove è morto, però prima di approdarvi fu costretto a un lungo pellegrinaggio nella provincia americana, Bloomington, Baltimora, Bryn Mawr, Buffalo, sai che allegria.
L’Europa non se lo meritava, Girard. Ma tutti quegli anni spesi a insegnare letteratura nei college, a chissà quali somari, gli permisero di scoprire che dentro i grandi classici, dentro le tragedie greche, dentro la Divina Commedia, dentro Madame Bovary, c’era un nucleo comune che a sua volta si ritrovava nella Bibbia. E che quel nucleo conteneva il segreto dei comportamenti umani. Quindi Girard va misurato non con gli altri pur notevoli esuli che insegnarono a Stanford, Nabokov e Voegelin, ma con giganti del pensiero quali Nietzsche e Freud che nei suoi numerosi libri analizza, utilizza, critica e supera. Smonta la psicanalisi dimostrando che l’uomo agisce non in base alla propria interiorità ma agli stimoli esterni: “La radice di ogni conflitto è la competizione, la rivalità mimetica tra le persone, i Paesi, le culture. La competizione è il desiderio di imitare l’altro per ottenere le stesse cose che lui / lei ha, se necessario attraverso la violenza”.
Il desiderio mimetico è il passepartout girardiano, la chiave che apre tutte le porte della conoscenza. Il desiderio di essere come gli altri diventa, per competizione, per invidia, stimolo a scagliarsi contro gli altri e questo spiega innumerevoli disastri passati e presenti: l’odio islamico verso l’Occidente, i linciaggi mediatici, la caccia all’untore di Alessandro Manzoni e le monetine a Bettino Craxi, perfino l’anoressia. Spiega anche, e mi dispiace comunicarlo alle donne romantiche in ascolto, l’amore. O quantomeno alcune forme d’amore. Girard demitizza, quasi dissacra questo sentimento e forse lo fa senza volerlo, semplicemente tirando le somme dei suoi studi su Shakespeare. Leggendo Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate e La dodicesima notte ha notato che il desiderio si rafforza con la frustrazione e non con l’appagamento dei sensi. “Nelle commedie scespiriane tutti gli innamorati si credono incarnazioni dell’amore vero, esprimendo indipendenza dal resto del mondo. Se questo amore vero fosse così indipendente come pretende di essere, i due amanti si accontenterebbero della loro mutua presenza senza mai impelagarsi con gli altri. Invece le cose vanno in modo molto diverso. L’amore vero scoppia sempre in presenza di qualche ostacolo». Lungi da me voler demitizzare Girard, l’uomo che mi ha insegnato a guardare la società e l’uomo con un realismo più convincente, e meno disperato, di quello di Machiavelli, eppure questa riflessione mi sembra l’edizione colta del vecchio detto «In amor vince chi fugge”. E al contempo la premessa alla scoperta dei neuroni-specchio, che fanno di ogni uomo, in parte, una scimmia.
E perché Girard supera, almeno per capacità di analisi della religione, Nietzsche? Perché il filosofo tedesco “non vede che la presa di posizione evangelica deriva da una resistenza eroica al contagio violento, dalla chiaroveggenza di una piccola minoranza che osa opporsi al gregarismo mostruoso del linciaggio dionisiaco”. Nietzsche considerava il cristianesimo una religione da schiavi, Girard sulla base del Vangelo (testo molto stampato ma evidentemente molto poco letto) dimostra invece che alla sua origine c’è un nucleo di uomini talmente liberi da non aggregarsi alla maggioranza ululante e all’apparenza vincente che mandò Cristo sulla croce al posto di Barabba. Si capisce che non era un superdemocratico, l’antropologo-filosofo appena morto a Stanford, era un monarchico (lo motiva razionalmente in Portando Clausewitz all’estremo) che osservava con poca stima parlamentari e presidenti: “L’abilità politica quasi sempre consiste nel lasciarsi andare al mimetismo collettivo”.
Non dirò che era di destra (di una destra divina ed extraparlamentare, chiaro) solo perché per la sua libertà intellettuale già ha dovuto pagare il caro prezzo dell’esilio: figuriamoci cosa succederebbe alla sua opera se venisse sgamato politicamente.
Camillo Langone. IL GIORNALE, 6 novembre 2015