Quello che è successo nella capitale francese è guerra, una nuova guerra. E il primo modo per rispondere è: dare un nome ai veri responsabili. Un contributo di Bernard Henry Levy (dal Corriere della Sera).

Ebbene, la guerra. Una guerra di nuovo tipo. Una guerra con e senza frontiere, con e senza Stato, una guerra due volte nuova perché mescola il modello deterritorializzato di Al Qaeda e il vecchio paradigma territoriale al quale l’Isis è tornato. Ma comunque una guerra.

Di fronte a una guerra che né gli Stati Uniti né l’Egitto né il Libano né la Turchia né oggi la Francia hanno voluto, una sola domanda è valida: che fare? Come rispondere e vincere, quando questo tipo di guerra vi cade addosso?

Prima legge. Dare un nome. Dire pane al pane, vino al vino. E osare formulare la terribile parola «guerra» che ha la vocazione, quasi la proprietà e, in fondo, la nobiltà e al tempo stesso la debolezza di essere respinta dalle democrazie oltre i limiti delle loro facoltà, dei loro punti di riferimento immaginari, simbolici e reali.

Siamo a questo punto. Pensare l’impensabile della guerra. Accettare quell’ossimoro che è l’idea di una Repubblica moderna costretta a combattere per salvarsi. E pensarlo con tanta più pena in quanto nessuna fra le regole stabilite, da Tucidide a Clausewitz ai teorici della guerra, sembra applicarsi a questo Stato fantoccio che porta il conflitto tanto più lontano in quanto i suoi fronti sono incerti e i suoi combattenti hanno il vantaggio strategico di non fare alcuna differenza fra ciò che noi chiamiamo vita e ciò che loro chiamano morte.

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Le autorità francesi l’hanno capito, al livello più alto. La classe politica, unanime, ha avallato il loro gesto. Restiamo noi, il corpo sociale nel suo insieme e nel suo dettaglio: ciascuno di noi che, ogni volta, è un bersaglio, un fronte, un soldato senza saperlo, un focolaio di resistenza, un punto di mobilitazione e di fragilità biopolitica. È sconfortante, è atroce, ma è così e occorre urgentemente prenderne atto. 
Secondo principio. Il nemico. Chi dice guerra dice nemico. E il nemico bisogna trattarlo non solo come tale, cioè (lezione di Carl Schmitt) come una figura con cui si può, secondo la tattica adottata, giocare d’astuzia, fingere di dialogare, lottare senza parlare, in nessun caso transigere, ma soprattutto (lezione di Sant’Agostino, di San Tommaso e di tutti i teorici della guerra giusta) bisogna dargli il suo nome vero e preciso.

Questo nome non è il «terrorismo». Non è una dispersione di «lupi solitari» o di «squilibrati». Quanto all’eterna cultura della giustificazione che ci presenta gli squadroni della morte come gente umiliata, ridotta allo stremo da una società iniqua e costretta dalla miseria a uccidere dei giovani il cui unico crimine è di aver amato il rock, il football o la frescura di una notte autunnale in un bar, è un insulto alla miseria non meno che alle vittime. 
No. Gli uomini che ce l’hanno con il dolce vivere e con la libertà di comportamento cara alle grandi metropoli, i mascalzoni che odiano lo spirito delle città come – è infatti la stessa cosa – lo spirito delle leggi, del diritto e della gradevole autonomia degli individui liberati dalle vecchie sudditanze, gli incolti cui bisognerebbe contrapporre, se non fossero loro estranee, le così belle parole di Victor Hugo quando gridava, durante i massacri della Comune, che prendersela con Parigi è più che prendersela con la Francia, perché significa distruggere il mondo: costoro conviene chiamarli fascisti. O meglio: islamo-fascisti. Meglio ancora: il frutto di un punto di incrocio che un altro scrittore, Paul Claudel, vede prospettarsi quando il 21 maggio 1935 nel suo Diario scrive, in uno di quei lampi di genio di cui solo i grandissimi hanno il segreto: «Discorso di Hitler? Si sta creando al centro dell’Europa una sorta di islamismo…».

Il vantaggio dell’atto di nominare? Mettere il cursore dove conviene. Ricordare che con questo tipo di avversario la guerra deve essere senza tregua e senza pietà. Poi, costringere ciascuno, dappertutto, cioè nel mondo arabo-musulmano come nel resto del pianeta, a dire perché combatte, con chi, contro chi.
Questo non significa naturalmente che l’Islam abbia, più di altre formazioni discorsive, una qualche affinità con il peggio. E l’urgenza di questa lotta non deve distrarci dalla seconda battaglia, essenziale, anche vitale, che è quella per l’altro Islam, per l’Islam dei Lumi, per l’Islam in cui si riconoscono gli eredi di Massud, di Izetbegovic, del bengalese Mujibur Rahman, dei nazionalisti curdi o di un sultano del Marocco che fece l’eroica scelta di salvare, contro il regime di Vichy, gli ebrei del suo regno.

Ma ciò vuol dire due cose, o piuttosto tre. Innanzitutto, che le terre dell’Islam sono le uniche al mondo dove – poiché si reputa che la tormenta fascista degli anni Trenta non abbia oltrepassato il perimetro dell’Europa – ci si è dispensati dal fare il lavoro di memoria e di lutto che hanno compiuto i tedeschi, i francesi, gli europei in generale, i giapponesi.
In seguito, che bisogna far apparire nettamente la separazione decisiva, primordiale, che contrappone le due visioni dell’Islam impegnate in una guerra mortale e che è, tutto considerato, e se si vuole mantenere assolutamente l’uso della formula, la sola guerra di civiltà che valga la pena.
Infine, che la linea lungo la quale si affrontano gli affiliati di un Tariq Ramadan e gli amici del grande Abdelhawahb Meddeb, la verifica su ciò che, da un lato, puòin effetti alimentare il «Viva la muerte» dei nuovi nichilisti e, dall’altro, del tipo di lavoro ideologico, testuale e spirituale che basterebbe a scongiurare il ritorno o l’entrata dei fantasmi, tutto questo deve essere prioritariamente opera degli stessi musulmani.
Conosco l’obiezione. Sento già i benpensanti gridare che il fatto di invitare bravi cittadini a dissociarsi da un crimine che non hanno commesso significa supporli complici e, dunque, stigmatizzarli. Invece no. Infatti, quel «non in nostro nome» che aspettiamo dai nostri concittadini musulmani era quello degli israeliani che si dissociavano, quindici anni fa, dalla politica in Cisgiordania del loro governo. Era quello delle folle di americani che nel 2003 rifiutavano l’assurda guerra in Iraq. Era il grido, più recentemente, di tutti i britannici, fedeli o semplici lettori del Corano, i quali si addossarono la responsabilità di proclamare che esiste un altro Islam – dolce, misericordioso, amante di tolleranza e di pace – rispetto a quello nel cui nome si poteva pugnalare un militare in mezzo a una strada.
È un bel grido. È un bel gesto. Ma soprattutto è il gesto semplice, di una buona guerra, che consiste nell’isolare il nemico, staccarlo dalle sue retrovie e far sì che non si senta più come un pesce nell’acqua in una comunità di cui, in realtà, egli è la vergogna.

Infatti, chi dice guerra dice ancora, inevitabilmente, identificazione, emarginazione e, se possibile, neutralizzazione di quella parte del campo avverso che opera sul suolo nazionale.
È quel che fa Churchill mettendo in prigione, quando la Gran Bretagna entra in guerra, oltre duemila persone, talvolta molto vicine a lui, come un suo cugino, numero due del partito fascista inglese, Geo Pitt-Rivers, che egli considera nemici interni.
Ed è, fatte le debite proporzioni, quello che bisogna decidersi a fare bloccando, per esempio, i predicatori di odio; sorvegliando ancora più da vicino le migliaia di individui schedati «S», cioè sospetti di jihadismo; o convincendo i social network americani a non lasciare che gli appelli all’omicidio kamikaze prosperino all’ombra del primo emendamento.
Il gesto è delicato. È sempre sull’orlo della legislazione d’eccezione. Per questo è essenziale non cedere né sul diritto né sul dovere di ospitalità che si impone, più che mai, di fronte all’ondata di rifugiati siriani in fuga, giustamente, dal terrore islamo-fascista.

Continuare a ricevere i migranti e nello stesso tempo rendere inoffensivo il più gran numero di cellule pronte a uccidere… Accogliere a braccia aperte chi fugge dall’Isis e contemporaneamente essere implacabili con quelli fra loro che traessero vantaggio dalla nostra fedeltà ai nostri principi per infiltrarsi in terra di missione e commettervi i loro misfatti…
Non è contraddittorio. È l’unico modo, innanzitutto, per non offrire al nemico la vittoria che si aspetta, cioè di vederci rinunciare al modo di vivere insieme, aperto, generoso, che caratterizza le nostre democrazie. Ed è, lo ripeto, il modo di procedere inerente a ogni guerra giusta che consiste nel non lasciare amalgamare ciò che ha vocazione ad essere diviso; e nella circostanza mostrare alla grande maggioranza dei musulmani di Francia che non solo sono nostri alleati, ma fratelli concittadini.
Poi, l’essenziale. La vera fonte di questo orrore dilagante. Lo Stato islamico che occupa un terzo abbondante della Siria e dell’Iraq e che offre agli artificieri dei possibili, futuri teatri Bataclan le retrovie, i centri di comando, i campi di addestramento. È come un tempo a Sarajevo, come all’epoca in cui i sedicenti esperti agitavano lo spettro di centinaia di migliaia di soldati che si sarebbero dovuti impiegare sul terreno per impedire la pulizia etnica, mentre in realtà basteranno, giunto il momento, poche forze speciali e qualche attacco aereo: sono convinto che le orde dell’Isis siano molto più coraggiose quando si tratta di far saltare il cervello a giovani parigini inermi rispetto a quando bisogna affrontare veri soldati della libertà, e penso dunque che la comunità internazionale si trovi di fronte a una minaccia che, se lo vuole, ha tutti i mezzi per fermare.
Perché non lo fa? Perché dosare tanto meschinamente il nostro aiuto agli alleati curdi? E quale è la strana guerra che l’America di Barack Obama per ora non sembra voler davvero vincere? Lo ignoro. Ma so che la chiave del problema è qui. E che l’alternativa è chiara: «no boots on their ground» equivale a «more blood on our ground».

(Bernard Henry Levy, Corriere della Sera 16 novembre 2015)

(Traduzione di Daniela Maggioni)

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