La spia leggendaria e lo scrittore maledetto

Mata Hari in indonesiano vuol dire Pupilla dell’Aurora, ovvero il Sole. Il vero nome all’anagrafe era Margaretha Geertruide Zelle, quello in codice H21, il ventunesimo agente addestrato dalla tedesca Maria Ann von Heinrichsen, nota anche nel controspionaggio tedesco come «la maestra delle spie» e in quello francese come «Mademoiselle Doktor».

Nel 1917, quando venne fucilata nel parco di Vincennes, Mata Hari aveva quarant’anni, era stata sposata con un ufficiale dell’esercito delle Indie olandesi, Rudolph Mc Leod, da cui aveva poi divorziato, aveva messo al mondo due figli, un maschio e una femmina: il primo era morto, sembra per avvelenamento, ancora in giovane età, la seconda era stata portata via dal marito dopo la separazione. Due gravidanze, un clima insalubre per gli europei, il dolore per la morte del primo figlio, le continue tensioni coniugali avevano fatto sì che quando nel 1903, ormai separata, Greta era arrivata a Parigi, fosse l’eco della bellezza che aveva stregato il suo più maturo compagno. C’è un particolare, in tutte le foto che illustrano le sue performances di danzatrice, che è significativo. Per quanto nuda essa potesse apparire, non era mai a seno scoperto. Con il tempo, un’alimentazione attenta, il riposo e la ginnastica, il suo fisico aveva ripreso la naturale flessuosità adolescenziale, ma per il petto si era rivelato impietoso il commento del pittore Guillomet nei primi mesi parigini in cui aveva posato per guadagnarsi da vivere: «Troppo flaccido e pendulo. Vai bene come modella, ma solo in costume». Dietro quelle coppe dorate che restano come unico baluardo mentre i veli cadono e il corpo si consegna impudico allo sguardo dello spettatore, c’è la consapevolezza di un’imperfezione, la sua difesa e la sua trasformazione in segreto oggetto di desiderio.

La fortuna di Mata Hari la fece un intellettuale, e questo spiega molte cose. Si chiamava Emile Guimet e aveva allora cinquant’anni, era già direttore del museo da lui creato e che portava il suo nome, il Muséé Guimet, appunto, era un appassionato e un conoscitore dell’arte dell’Estremo Oriente. Nell’autunno del 1904 Emile Guimet si ritrova, portato da un amico giornalista, al Perroquet bleu, dove Lady Mc Leod si esibiva in quella che veniva chiamata «la danza delle bayadere». C’erano il sarong, i veli, la musica ipnotica dei gong e degli ottoni, il languore dei gesti e, naturalmente, la nudità finale, l’unica cosa che i clienti del locale fossero in grado di apprezzare. Ma Guimet ci vide molto altro: vide Debussy che stava lavorando a una composizione musicale ispirata alle pagode, Puccini e la sua Madame Butterfly, Gauguin che dipingeva i Tropici Di lì a due anni, alla mostra etnografica del Trocadéro, Picasso avrebbe incontrato le maschere negre e, tramite loro, il cubismo Guimet, insomma, si rese conto che Mata Hari era nel tempo, incarnava l’Occidente che si apriva all’Oriente e ne restava posseduto, rimandava a una specie di estasi mistica in cui la modernità europea si arrendeva appagata. Nello squallore di un locale notturno vide che cosa, con il décor giusto, quelle danze sacrali e lascive potevano essere. Mise intorno alla loro interprete, come un palcoscenico, il suo museo, con le statue di pietra, i gioielli, i vasi, le decorazioni, e la lanciò. Mata Hari, come mito, nacque così.

Oggi ha poco senso chiedersi quanto e se si fosse veramente di fronte a un talento artistico e i giudizi coevi al suo tempo non aiutano, frutto come sono di evidenti antipatie o simpatie aprioristiche. Più interessante è vedere come, nello scarso decennio in cui quel mito durò, la giovane Greta riuscì ad arricchirlo, inventandosi un passato orientale, una discendenza principesca, una conoscenza di riti e di culti. Sotto questo aspetto, fu lei la vera creatrice di un proprio doppio che divenne l’unico vero, l’unico per il quale valesse la pena vivere. E morire. La spia viene dopo e, storicamente parlando, non spiò grandi cose. Era uno spionaggio militare e industriale, da attachés di ambasciate, ufficiali di alto lignaggio o di alto grado, grand commis di Stato. Aveva cominciato per il governo tedesco nel 1908, in un’epoca in cui tutti spiavano tutti e un continente da troppo tempo in pace andava, senza saperlo, ma con frenesia, verso la catastrofe. Alla fine si ritrovò a fare il doppio gioco, per i tedeschi e per i francesi, tradendo entrambi, da entrambi tradita.

Di questo mito Giuseppe Scaraffia dà ora conto in un libro ingegnosamente costruito e ricco di suggestioni (Gli ultimi giorni di Mata Hari, Utet, pagg. 144, euro 14), dove a fare da corona al personaggio è l’élite culturale del tempo, da d’Annunzio a Colette, da Marinetti a Proust a Natalie Barney Perché di quell’élite Mata Hari in qualche modo fa parte, l’ha frequentata, spesso ci è andata a letto, è stata apprezzata e/o detestata, ha lasciato ricordi e/o rimpianti.Il più clamoroso di questi incontri, e il meno conosciuto, è quello che qui di seguito andiamo a raccontare. Dunque, il 30 novembre del 1915, Mata Hari è in Inghilterra. La guerra è scoppiata ormai da un anno, lei è appena sbarcata da una nave olandese: vuole raggiungere la Francia, sul suo ruolo ci sono al momento dei sospetti, ma nessuna certezza. Alloggia al Savoy, il top dell’hôtellerie dell’epoca, si reca a Folkestone, dove gli stranieri in transito debbono presentarsi. Un rapporto di polizia indirizzato a Scotland Yard la descrive così: «Altezza un metro e settanta; taglia: media; capelli scuri; viso: ovale; carnagione: olivastra; fronte: bassa; occhi: grigio-scuro; sopracciglia: scure; naso: diritto; bocca: piccola; età: 39 anni. Parla francese, inglese, italiano, olandese e probabilmente tedesco. Donna bella e sfrontata. Vestita elegantemente, abito marrone con bordi in lontra e cappello in tinta». Diffidenti, gli inglesi ne segnalano la presenza alle autorità francesi, ma non ce n’è bisogno perché la donna a Londra si è subito recata al Consolato di Francia, in Bedford Square, ufficio passaporti: vuole un visto di ingresso.

A ottemperare abbastanza celermente alla sua richiesta è un giovane militare lì distaccato: si chiama Louis Déstouches, ha 21 anni, diverrà in seguito famoso sotto il nome di CélineL’incontro fra la più mitica delle spie e il più dannato degli scrittori è talmente romanzesco che sorprende come nessuno ne abbia tratto un film. A renderlo noto per iscritto fu, negli anni Sessanta, George Geoffroy. All’epoca dei fatti Geoffroy era a Londra già da un anno, dopo aver servito negli uffici dell’Ottava armata nelle Fiandre. Un giorno si trovò di fronte questo giovane e sconosciuto commilitone, armato di quella che amava definire la sua «batteria da cucina», ovvero croce di guerra e medaglia al valore George aveva una costosa camera ammobiliata in Gower Street, gli offrì di dividere le spese, Louis accettò. Per mesi vissero in simbiosi: music hall, balletti, teatro, dove la «batteria da cucina» assicurava l’ingresso gratis, bordelli di Soho, dove l’amicizia con i magnaccia francesi permetteva consumazioni a buon mercato.

E Mata Hari? Stando a Geoffroy, furono solo suoi ospiti a una cena al Savoy; stando a Fréderic Vitoux, biografo di Céline, che cita la vedova di questi, Lucette Almansor, come fonte, ci fu spazio per un triangolo erotico non particolarmente rimarchevole, divenuto pressoché insignificante nel ricordo. Storicamente le date corrispondono, Mata Hari si imbarcò per Dieppe il quattro dicembre, trascorse tre notti al Savoy, andò in Bedford Square, nei cui uffici lavoravano Céline e Geoffroy, a farsi rilasciare un visto che infatti ottenne, a Folkestone, a farsi interrogare dalla locale polizia.

Il racconto di Geoffroy, insomma, è plausibile, la testimonianza di Madame Lucette anche, indipendentemente dal giudizio riduttivo (gelosia di lei, volontà di lui di non rinfocolare gelosie retrospettive, disillusione reale, chi può dirlo?) sulla performance sessuale in sé. Ciò che suona comunque strano è il silenzio dello stesso Céline, affabulatore e falsificatore nato, sempre pronto a riscrivere la sua vita. Di Mata Hari non c’è traccia né orale né scritta, pubblica o privata. Un’ipotesi è che in terra di Francia l’isteria antitedesca degli anni Venti suggerisse prudenza, e la storia di un militare francese decorato al valore che finiva a letto con una spia del Kaiser non era delle più commendevoli. Nel decennio successivo e nel dopoguerra, il filo-hitlerismo celiniano risulterà poi talmente rovinoso per la sua figura da cercare di mettere la sordina a tutto ciò che poteva far pensare a un’intesa con il nemicoTorniamo a Mata Hari. Morì a testa alta, il rifiuto della benda sugli occhi, coperta da un mantello nero, un cappello triangolare dello stesso colore a coprirle la fronte. Dieci anni dopo, uscì la prima biografia su di lei, Courtesan And Spy: l’aveva scritta un ufficiale del British Intelligence Service, Thomas Coulson.

Dopo averla letta, Otto von Hunting, console generale di Germania negli Stati Uniti, la definì «uno dei più spregevoli strumenti di propaganda bellica mai pubblicato». Hollywood decise però di farci un film e a impersonare la «cortigiana e spia» chiamò Greta Garbo. Fu come una sorta di passaggio del testimone da un mito all’altro. Il suo volto di neve luminoso, modellato come quello di una divinità pagana, una sorta di lago limpido con grandi occhi neri a fare da àncora, moderno e eterno; la sua voce, una bionda con la voce di una bruna, profonda e triste, non cristallina e non gutturale, gelida, ma attraversata da vampe di calore, seducente senza volerlo, scostante senza sforzo; il suo modo di muoversi, un incedere rallentato ma deciso, una sorta di souplesse fatta di leggeri passi lunghi, da puledro di razza più che da felino, si impongono ancora oggi a chi veda quella pellicola come l’icona malinconica di una seduzione che non si illude sulla sterilità del proprio destino.

(Stenio Solinas, IL GIORNALE, 2 dicembre 2015)

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