Guareschi, quella “fiaba” che vinse il lager
Il 23 dicembre di settant’anni fa, all’Angelicum di Milano, andava in scena uno spettacolo particolare, inedito soprattutto nelle modalità della sua genesi: La Favola di Natale scritto e messo in scena da Giovannino Guareschi mentre, assieme ad altre migliaia di militari italiani (molti dei quali spettatori di quella serata del 1945), era prigioniero nel lager di Sandbostel in seguito alla scelta di non aderire alla Repubblica Sociale di Mussolini e al Terzo Reich di Hitler, per rimanere fedele al giuramento fatto al Re.
“La Favola” (stampata dalle Edizioni Riunite di Milano nel 1946 e poi riedita varie volte tra cui un’ edizione con audiocassetta con la lettura di Gianrico Tedeschi, anche lui internato militare) è stata recentemente tradotta in russo dalla sensibile Olga Gurevich, docente dell’Università di Mosca. Lo spettacolo, nel corso degli ultimi anni in particolare, è stato messo in scena varie volte. Domenica 27, a Busseto, sarà rappresentato con una nota particolare e commovente: sarà suonata anche la fisarmonica usata dal maestro Arturo Coppola per comporre e suonare le musiche che accompagnarono la rappresentazione della favola nel lager.
La prima dello spettacolo si era tenuta domenica 24 dicembre 1944 e fu, come ricordò il padre di Don Camillo e Peppone, «un successone». Ma, in realtà, l’anno prima, Guareschi come ci ha spiegato Giovanni Lugaresi, giornalista e per vent’anni presidente del Club dei Ventitré (ora ne è presidente onorario), aveva già scritto una favola: «Erano pochi fogli: con una sentinella sulla torretta, Giuseppe e Maria che arrivano al lager chiedendo ospitalità, e poi, il nascondimento, grazie alla sentinella stessa, una gran luce che si accende nel luogo dove nasce il Bambino, una stella luminosa e la scomparsa della Sacra Famiglia così, nel nulla. Un gioiellino di poco respiro, ma delicato e toccante».
Guareschi annotava nel suo diario di averla scritta «con disperazione». Pochi giorni dopo, proprio il 25 dicembre, invece, scriveva: «Questa notte è venuto Albertino a trovarmi col suo sorellino e il buon Dio, per non farglieli vedere, ha coperto i reticolati con candidi fiori di gelo». È questo il nucleo primigenio di quella che sarà poi la Favola di Natale. Protagonista è il figlio dello scrittore, Albertino, che con la nonna, il fedele cane Flick e una lucciola che gli fa strada nella notte raggiunge, nel bosco degli incontri, il padre prigioniero nel lager. Presto arriva il momento del saluto con il babbo che dice: «Promettimi che non tornerai più. Neppure in sogno i bambini debbono entrare laggiù».
Proprio Alberto, da anni assorbito nell’impegno nell’Archivio e Centro di documentazione di Roncole Verdi, ci ha raccontato: «Mio padre, nel lager, si era accorto che il suo compito non era solo quello di divertire ma anche di farsi carico dei problemi degli altri. E così, con un colloquio immaginario con se stesso, col Giovannino magro, con gli occhi spiritati, stracciato ma pieno di sogni, dice: “Questi poveretti hanno una grande nostalgia di casa: perché non cerchi di rasserenarli scrivendo una favola di Natale…”. Così è nata questa opera le cui muse ispiratrici furono “la fame, il freddo e la nostalgia”». Mentre scriveva la favola, il pensiero di Guareschi correva ossessivamente a casa perché «c’era qualcuno che non conoscevo. Sempre dispettosa la Pasionaria aveva aspettato che io mi trovassi in un campo di prigionia da ben due mesi per venire al mondo».
La Pasionaria era Carlotta, morta lo scorso 25 ottobre. Alcuni mesi fa l’avevamo incontrata. Ci aveva confessato con quei suoi occhi che i ricordi avevano fatto diventare lucidi e luminosi: «Io sono nata nel novembre del 1943 e quindi ho conosciuto mio padre solo quando è tornato dalla prigionia. Con lui mi sono trovata subito bene, mentre mio fratello si è spaventato quando l’ha visto arrivare perché non lo riconosceva ed è quasi scappato. Infatti, prima di essere richiamato alle armi, mio padre pesava sugli 86 chili. È tornato che ne pesava 46, un chilo meno di mia madre».
Sempre nel 1944, pochi giorni prima di iniziare a scrivere la sua favola, Giovannino si chiedeva se avrebbe mai visto Carlotta. Poi, così rispondeva a quel tragico quesito: «Non importa perché le parole nascono ma non muoiono. Non muore niente, a questo mondo. Le parole nascono, e poi essendo più leggere dell’aria, salgono in su e arrivano fino al punto in cui il cielo finisce e comincia l’eternità. Come se si liberassero in una stanza cento palloncini: arrivati al soffitto si fermerebbero. Lassù ci sono tutte le parole del mondo: dal grido minaccioso di Caino, all’ultimo discorso di Farinacci. Questo è importante, signorina Carlotta: perché, se il buon Dio mi metterà le alucce sulle spalle prima che io ti veda, andrò a sedermi sulla stella che sta proprio sopra la tua casa e, mano a mano che saliranno al cielo le tue paroline corte corte come semibiscrome, io le coglierò al volo e le rinchiuderò tutte dentro un sacchetto di seta. E, ogni tanto, ne trarrò fuori un pizzico e le scuoterò come un mazzetto di campanellini e mi divertirò a sentirle tintinnare. Così: do, re, mi, fa, sol, la, sì…».
Nazzareno Giusti, AVVENIRE, 19 dicembre 2015