Viaggio nel più antico quartiere ebraico del mondo. Lo storico Calimani: “Era chiuso come un recinto ma con la città si creò un legame speciale”.

Venezia – Canali attorno. Case antiche, altissime per l’epoca, che si affacciano su una piazza a forma rozzamente esagonale, quasi a formare una fortezza, o un carcere. Ponti sottili e facilmente controllabili. Spazi angusti che nell’antichità straripavano di gente.

Questo è il cuore del Ghetto Novo, il prototipo di tutti i ghetti. Il primo, il più antico. Creato esattamente 500 anni fa. Gli ebrei circolavano a Venezia da tutto il medioevo ma non avevano diritto di residenza, erano funzionali al potere politico, fornendo prestiti a tassi concordati (i cristiani non potevano farlo per divieto religioso) ma di certo non erano amati. Ecco perché, ufficialmente, dovevano risiedere a Mestre. Ma nel 1508 scoppiò la guerra della Lega di Cambrai e Venezia si trovò sola contro tanti, troppi, nemici. Servivano capitali e gli ebrei potevano fornirli. Si decise che in cambio di quel denaro avrebbero potuto risiedere a Venezia. Ma tanto bastò a scatenare l’ira dei predicatori e di alcuni dei membri del Collegio, come Zaccaria Dolfin. Alla fine si trovò una soluzione di compromesso: «Li giudei debbano tutti abitar unidi in la corte delle case, che son in Ghetto appresso a San Gerolamo e acciocché non vadino tutta la notte attorno… siano fatte due porte… qual porte se debbino aprir la mattina alla marangona e la sera siano serrate a ore 24 per quattro custodi cristiani a ciò deputati e pagati da loro giudei». Tutte le uscite e le finestre che davano all’esterno del Ghetto dovevano essere murate, i custodi sorvegliarne gli ingressi, due barche, sempre pagate dagli ebrei, girare nei canali. Un ebreo trovato fuori, la notte, sarebbe stato multato in modo crescente la prima e la seconda volta. Alla terza avrebbe scontato anche due mesi di prigione.

Non bastasse, la presenza degli ebrei in città andava ricontrattata ogni cinqueanni (poi divennero dieci), girando per la Serenissima avrebbero dovuto portare un segno distintivo giallo e non avrebbero mai potuto possedere delle case di proprietà (nemmeno nel Ghetto). Eppure il Ghetto Novo, chiamato così perché un tempo lì si trovava una fonderia, in veneziano un «getto», era comunque un luogo più sicuro di tanti altri in un’Europa in cui il pogrom era sempre in agguato. La popolazione continuò a crescere. Al gruppo iniziale di ebrei aschenaziti di origine italiana e tedesca si aggiunsero prima i sefarditi di Levante (ebrei fuggiti dalla Spagna e trasferitisi nei territori del sultano) e poi i sefarditi di Ponente (i così detti marrani convertiti a forza al cristianesimo che, appena potevano, tornavano all’ebraismo). La densità abitativa divenne insostenibile. Gli edifici continuavano a crescere verso l’alto. Così, nel 1541 la Serenissima concesse di unire al Ghetto la lunga calle chiamata del Ghetto Vecchio e le vie circonvicine dove si trasferirono i Levanti, specialisti della mercatura e non del prestito; poi arrivò il Ghetto Novissimo, collegato con un ponticello dove si sedimentarono i Ponentini. Nel frattempo, nei piani alti degli edifici, sorsero le sinagoghe, a Venezia chiamate «scole». Sette in tutto, fastose all’interno ma quasi invisibili all’esterno per non attirare risentimenti cristiani. E attorno alle sinagoghe nacque uno dei centri culturali più vivaci di tutto il mondo ebraico. Annoverò pensatori come il rabbino Leone da Modena e la poetessa Sara Coppio Sullam.

Da Venezia, pur non potendo gli ebrei essere stampatori in proprio, si diffusero libri in ebraico che divennero fondamentali per la cultura di un popolo disperso.Camminando oggi per il sottoportego del ghetto dove c’erano i banchi di prestito (il più antico è il banco rosso) oppure visitando la magnifica opulenza della Scola (sinagoga) spagnola dove la perfezione degli arredi e dei marmi reca un solo volontario errore (per non recare offesa a Dio) diventa difficile trarre un bilancio netto sul senso di questo luogo al contempo così chiuso e così aperto, così sbagliato, eppure per certi versi, archetipo di convivenza pacifica.

Dice Riccardo Calimani, storico dell’ebraismo e in particolare del Ghetto, il quale ha accettato di accompagnarmi attraverso le sinagoghe e il museo ebraico: «I cinque secoli di vita del Ghetto vanno commemorati, non celebrati. Diversamente sarebbe fare un nuovo torto a coloro che furono vittime dell’ingiustizia e della segregazione. Detto questo bisogna ricordare che dentro il Ghetto si formò una comunità che pian piano sviluppò usi e costumi e creò una sua cultura». E ancora: «La Serenissima tollerò gli ebrei per interesse, per di più in questo rapporto ci furono alti e bassi, ma tra la città e gli ebrei si creò un legame speciale, che si rafforzò nel tempo. Ad esempio gli ebrei furono in prima fila durante i moti risorgimentali del ’48, del resto anche Daniele Manin era di origini ebraiche». Sì, perché la storia del Ghetto come luogo di costrizione (arrivarono ad abitarvi nel ‘600 più di cinquemila persone) si chiuse con l’arrivo dei francesi nel 1797, quando la municipalità provvisoria dichiarò: «Affinché visivamente apparisca non esservi una separazione tra essi e gli altri Cittadini di questa Città, abbiano prontamente a levarsi le porte che, in passato, chiudevano il recinto del Ghetto».

Ma quando le porte caddero l’epoca d’oro della comunità ebraica veneziana era già finita. Spiega Calimani proprio mentre ne attraversiamo una senza più battenti: «Dopo la peste del 1630 la città non si riprese più, iniziò una lunga decadenza. E fu così anche per il Ghetto, i banchi di prestito finirono tutti in perdita. La popolazione lentamente diminuì, molti, soprattutto i più facoltosi si spostarono a vivere nelle zone più centrali della città. Negli anni ’30 del ‘900 c’erano a Venezia poco più di 1.200 ebrei. Ma una comunità rimase. Il primo dei miei antenati entrò nel Ghetto nel 1516 e io sono il primo Calimani a essere nato fuori dal Ghetto nel 1946, un rapporto di lunga durata…». E il rapporto dura ancora anche se la comunità, ormai, è davvero minuscola. I monumenti del Ghetto realizzati da Arbit Blatas ricordano l’ultima ferita subita. Appena dopo l’8 settembre le autorità naziste si misero al lavoro per procurarsi la lista degli ebrei della città. Il presidente della Comunità Giuseppe Jona distrusse tutte le liste in suo possesso e poi si suicidò per non farsi interrogare dalle Ss. Duecento vennero comunque catturati e deportati. Ne tornarono solo sette. Perché la violenza verso chi è diverso non è solo un retaggio. Come spiega Calimani camminando in una calle assolatamente fredda: «La condizione dell’ebreo è sempre stata precaria. Oggi sembriamo vivere tutti in una condizione precaria. Pensi al Bataclan a Parigi, si può dire che ormai siamo tutti un po’ ebrei».

Gli chiedo se il terrorismo lo spaventa, se oggi essere ebreo torna a essere difficile: «Mi spaventa il radicalismo. Gli ebrei e la loro condizione, storicamente precaria, sono il barometro di una società. Quello che mi spaventa è la radicalizzazione in corso nel mondo contemporaneo e anche in Europa. Il radicalismo non è solo figlio del terrorismo islamico».

(Matteo Sacchi, IL GIORNALE, 24 gennaio 2016)

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