Storia delle onde gravitazionali. Lo spazio s’increspa come un lago
Cento anni dopo la teoria di Einstein l’annuncio in diretta mondiale sul web: «Abbiamo rilevato le onde gravitazionali». Il trionfo di un piccolo gruppo di ostinati ricercatori spiegato dal fisico Carlo Rovelli.
Il mondo della fisica era in fibrillazione da settimane. Le regole del gioco, che servono per ridurre il rischio di falsi allarmi, imponevano riserbo fino all’annuncio ufficiale, e i colleghi tenevano la bocca cucita. Ma lo scintillio dei loro occhi li tradiva. In fondo è un Nobel praticamente certo. Ieri, in un’emozionante conferenza stampa seguita in diretta sul web nel mondo intero, è arrivato l’annuncio ufficiale: rilevate le onde gravitazionali. Per i fisici è un momento estatico. Fino al giorno prima, le uniche onde fondamentali osservate dall’uomo erano le onde elettromagnetiche, quelle di cui sono fatti i segnali radio e la luce. Ieri è stato osservato un altro tipo di onda. È come se dovessimo riscrivere la Genesi, sostituendo «Fiat lux» con «Fiat lux et gravitatis fluctus». Sono onde un po’ simili a quelle elettromagnetiche, ma anche qualcosa di diverso e strano: sono oscillazioni dello spazio. Lo spazio si increspa e oscilla come la superficie di un lago.
Ne conoscevamo già l’esistenza molto prima di vederle
L’aspetto più spettacolare di questa storia non è la stranezza della Natura, né la maestria degli scienziati che hanno costruito l’antenna capace di rilevare le onde di spazio. Quello che è straordinario è che noi conoscevamo l’esistenza di queste onde molto prima di vederle: la loro esistenza è predetta della relatività generale di Albert Einstein, di cui abbiamo appena festeggiato il centenario. Se la Natura benigna voleva onorare Einstein a cent’anni dalla sua teoria, ha trovato il modo più elegante. Difficile immaginare un’indicazione più chiara della forza di un pensiero che, appoggiandosi sugli indizi e sulla ragione, è capace di vedere così lontano; tanto che occhi e mani hanno bisogno di un altro secolo per seguirlo. Per arrivarci, è stata necessaria una vasta collaborazione internazionale, dove gli italiani hanno — ancora una volta — un ruolo maggiore. Eravamo convinti che queste onde esistessero. Ma una cosa è essere convinti che esistano leoni. Un’altra è cercare un leone vero e guardarlo negli occhi. La differenza è ciò che chiamiamo «scienza».
Sono state prodotte dallo sfracellarsi di due buchi neri
L’esistenza di queste «onde di gravità» è conseguenza del fatto che niente va più veloce della luce. La luce impiega otto minuti per arrivare dal Sole a noi. Se il Sole fosse spazzato via adesso, magari da una stella di neutroni che pazzia per la galassia (evento improbabile), che succederebbe nei successivi otto minuti sulla Terra? Risposta: niente. Perché non c’è modo qui di sapere che il Sole non c’è più, nessun messaggio ha avuto il tempo di arrivare. Ma la gravità del Sole tiene la Terra sulla sua orbita, quindi per otto minuti la Terra sarebbe ancora attratta dal Sole, anche se il Sole non c’è più! Nel corso di questi otto minuti, qualcosa deve viaggiare nello spazio, portando l’informazione che il Sole non c’è più, e l’attrazione del Sole deve spegnersi. Questo qualcosa, è un’onda gravitazionale: il propagarsi rapido di una minuta deformazione dello spazio. Le onde osservate ora dal Ligo (Laser interferometer gravitational-waves observatory: osservatorio di onde gravitazionali a interferometria laser) sono state prodotte da un evento catastrofico: lo sprofondare di due buchi neri uno nell’altro. Erano ciascuno pesante diverse decine di volte il Sole, e nel loro sfracellarsi spiraleggiando l’uno sull’altro hanno irradiato nello spazio una quantità di energia pari a tre interi «Soli» vaporizzati in pochi istanti. La violenza dell’evento ha prodotto onde che come uno tsunami galattico hanno viaggiato milioni di anni nello spazio interstellare e ora sono arrivate a sciabordare, indebolite, sulle nostre antenne.
Il ruolo dei fisici italiani
Un’antenna per osservare queste deformazioni dello spazio è semplice in linea di principio. Basta prendere due oggetti, due palle appese a un filo, e misurare con precisione la distanza fra loro. Un’onda gravitazionale fa cambiare, oscillare, la distanza, perché lo spazio si stira e si tira come un filo per stendere che oscilla al vento. Il problema è che il cambiamento è piccolo, e rilevarlo richiede ingegneria avanzatissima. Ligo misura la distanza fra due grandi masse sospese a distanza di qualche chilometro, per mezzo di un laser che rimbalza fra le due e fa interferenza con un secondo laser che rimbalza fra due masse disposte a novanta gradi. Per questo le antenne sono costruzioni con due lunghi bracci perpendicolari. Il leggero sfasamento fra i due bracci è quello che si misura. In Italia c’è una simile antenna presso Pisa, chiamata Virgo, parte integrante della vasta collaborazione che ha portato al risultato di ieri. Anche Virgo ha due bracci lunghi qualche chilometro. È uno spettacolo visitarli. Virgo non era accesa quando c’è stato l’evento celeste visto da Ligo, ma i fisici italiani che hanno costruito Virgo hanno giocato un ruolo essenziale. L’Italia è in primissima fila nel mondo e la ricerca delle onde gravitazionali è di antica tradizione da noi — risale alla lungimiranza di Edoardo Amaldi, allievo di Enrico Fermi, padre nobile della fisica italiana del dopoguerra e del dipartimento di Fisica a Roma — ed è stata condotta su molti fronti. Ricordo, studente a Trento, le esplorazioni artigianali e geniali di Massimo Cerdonio e Stefano Vitale che, forse troppo in anticipo sui tempi, provavano a usare i superconduttori come piccole antenne per rilevare le onde di spazio… Un briciolo di amarezza di non essere stati i primi a «vedere», ma anche per i fisici delle onde gravitazionali italiani è momento del trionfo: Virgo è, come Ligo, un macchina straordinaria che ora diventa un fantastico telescopio per osservare l’universo. Perché quello di ieri non è un punto di arrivo, è un punto di partenza: abbiamo aperto nuovi telescopi sull’universo. Siamo al punto in cui Galileo, dopo aver perfezionato il suo cannocchiale, è riuscito a usarlo per vedere il cielo. Quello che vedremo, nuovamente, ci stupirà.
Quella cena con Isaacson negli anni Novanta
Alla costruzione di queste antenne hanno partecipato decine di fisici, tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Nei primi anni Novanta ero giovane professore in America, e Richard Isaacson era venuto a Pittsburgh, dove insegnavo. Richard era il responsabile per la fisica della gravitazione della National science foundation, l’agenzia americana che assegna i fondi per la ricerca scientifica. Aveva appena deciso, in prima persona, come si usa in America, di investire fondi cospicui per Ligo. L’obiettivo era rilevare le onde in cinque anni. Io avevo manifestato perplessità. Lui, di passaggio da Pittsburgh, voleva capirne i motivi. Cenavamo assieme a un piccolo tavolo in uno di quei simpatici ristoranti etnici che costellano le zone universitarie americane. Mi chiese se avessi dubbi sull’esistenza delle onde gravitazionali. «Praticamente nessuno». Critiche al principio della misura? «No», tutto limpido. Allora? Le onde sono deboli, ricordo gli risposi, e prima che la tecnologia arrivi a vederle, passerà tempo. Gli chiesi cosa gli desse la convinzione che ci si potesse arrivare. La risposta fu netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei grandi relativisti. Lavorava a Caltech. È lo stesso Kip Thorne che ha partecipato alla scrittura del film Interstellar: merito suo se oggi anche l’uomo della strada si è convinto che sia possibile rincontrare la propria figlia, più anziana di sé. Qualche anno dopo, incontratolo a una conferenza, gli chiesi cosa gli avesse dato la sicurezza per convincere Isaacson della fattibilità della misura. Kip ha aspettato a lungo prima di rispondere, guardandomi negli occhi. Poi mi ha chiesto: «Secondo te non dobbiamo provarci?». Sono passati venticinque anni. Finalmente ho capito: aveva ragione Kip. Oggi abbiamo visto le onde gravitazionali.
La fede nella ragione
È un trionfo per la scienza, un ennesimo trionfo per Einstein, un trionfo per Thorne e Isaacson, e la loro scommessa da poker. È un trionfo per una piccola comunità di ostinati ricercatori, in America come in Italia, che ha passato la vita a costruire delle macchine fantastiche, con finanziamenti molto più piccoli di quelli del Cern, inseguendo un sogno: vedere onde di tipo completamente nuovo, che nessuno aveva mai visto prima. Un sogno basato su una fede strana, la fede che la ragione scientifica funzioni: che le deduzioni logiche di Einstein e della sua matematica siano affidabili. Solo che la fede nella ragione è una fede peculiare: una fede a cui non si crede davvero fino in fondo, si chiede sempre di controllare. Abbiamo controllato. Ci sono. È un grande giorno per la scienza. Per fortuna Isaacson non ha badato ai miei dubbi.
(Carlo Rovelli, Corriere della Sera 11 febbraio 2016)