Dai motti teneri e sarcastici sulle case di Pompei alle tristi imbrattature spray delle nostre periferie (da La Stampa)

I muri hanno sempre parlato. Dai tempi della romana Pompei, colma di graffiti: pubblicità elettorale (c’è un’iscrizione elettorale che compare sulla facciata della casa di un certo Giulio Polibio che dice: «C. Iulium Polibium / aed(ilem) o(ro) v(os) f(aciatis), panem fert», vi prego di eleggere Caio Giulio Polibio edile, sa fare il pane), informazioni per i viandanti («Viator Pompeis pane gustas Nuceriae bibes», gusta il pane a Pompei, vai a Nocera per il vino), divieti su divieti («Otiosis locus / hic non est discede / morator», questo luogo non è per gli oziosi, vattene bighellone; «Hospes ad hunc tumulum ni meias ossa precantur / tecta hominis set si gratus homo es miser bibe da mi», passante, non orinare presso questo tumulo chiedono le ossa sepolte di un uomo, ma se sei una persona di buoni sentimenti, bevi (vino) e offrimene; «Cacator sic valeas / ut tu hoc locum trasias», cacatore, possa tu stare così bene da passare oltre questo luogo), un cumulo poi di epigrammi al modo di Marziale, di scritte licenziose, ma anche gentili saluti epistolari («vellem essere gemma ora non amplius una, / ut tibi signanti oscula pressa darem», dove lo scrivente vorrebbe sostituirsi all’anello, sigillo che la donna porta alla bocca prima di usarlo).

Proteste semi-colte

Come su di una lavagna, si scriveva liberamente sui muri, rispettando spesso le regole della metrica, e citando addirittura tra le righe, talvolta, Virgilio, Ennio, Ovidio, Tibullo, Properzio. Graffitari semicolti. Citavo Pompei perché, anche se l’abitudine di scrivere sui muri è antica, ora nelle nostre città è uno scempio senza limiti di vie imbrattate. Non ne faccio una questione estetica, neppure Renzo Piano pone il problema in questi termini, quando parla di «rammendi» delle periferie. Non si risolve il problema soltanto ridando mani di vernice sulle pareti sconciate. Questi nostri muri fotografano il nostro disagio, il nostro squallore, i nostri problemi sociali irrisolti. Comunque sia, sono colatura di vernice che non sa più esprimersi a parole, ma soltanto imbratta.

La protesta si esterna sul muro pulito in quanto luogo istituzionalmente vietato. Come fare la pipì nei giardinetti, in un aiuola pubblica. I muri erano sino a ieri imbrattati almeno con parole. Oggi il mondo-spray evita nella maggior parte dei casi ogni verbalizzazione. Un informe coro di sgorbi di bomboletta sporca senza senso gli spazi appena ripuliti, fungendo da segno cifrato di riconoscimento inespresso.

Senso addio

Schizzi analfabeti per segnare il territorio. Di ben maggiore intelligenza comunicativa erano, per chi se le ricorda, le scritte della contestazione studentesca, anni Sessantotto e seguenti, pieni di risorse retoriche, rime e metro, endecasillabi a gogò. Il muro era sporcato in forma di parole, non con colature rabbiose ma mute. Non ho intenzione alcuna di idealizzare il Sessantotto, ma si leggeva però «Liberiamo la creatività», «Spazio all’immaginazione», «La fantasia uccide il potere», «Ho voglia di fare il matto»… Quanta utopia: «Il nostro obiettivo è il sole», «Il cielo è tuo prendilo», «Occuperemo il cielo», «Voglio l’erba voglio», «Vogliamo la luna»! Erano tante anche le scritte non politiche. Il muro diventava il luogo privato dove il personale poteva essere raccontato: «Giovanna non ti amo più / E mi dispiace», oppure «Ho finito i soldi». Sulla lavagna nell’Università di Bologna occupata stava scritto, primavera del ’77, «Ho sempre avuto paura della DC / incomincio ad aver aver paura del PCI / ma il mio problema di fondo rimane quello di Caterina». Aveva preso piede l’idea che ciascuno era attore di se stesso, come se scrivere o ballare per le strade e le piazze assolvesse un’ansia di comunicare collettivamente; era una sorta di riscoperta del gioco, una volontà di riprendersi ciò che sembrava essere stato tolto: «Vietato vietare». «Liberiamo la creatività» dicevano le scritte, «Spazio all’immaginazione», «I muri della città saranno i nostri urli».

Oggi, è un’imbratto di rabbie. Confesso di sentirmi sollevato quando sbuca qualche brandello di ironia, appena leggo su un muro «fin qui / tutto bene», «con affetto / e / sentimento / meno te vedo / e meglio me sento!», o spiritose correzioni, o aggiunte e glosse: in una compare in rosso «l orgoglio / non serve» e accanto, in bianco, di altra mano «(ma l’apostrofo sì)»; oppure, «grazie per / avermi fato / romanista» con aggiunta d’altra mano «e analfabeta».

Una rabbia cieca

Su un masso di granito che indica la direzione «costa smeralda», qualcuno ha cassato «smeralda», e sottoscritto «troppo». Su un muro di Roma un cartello proponeva la vendita di una «Duna», vecchio tipo di auto Fiat esteticamente poco riuscita: sull’annuncio «Vendo “Duna” amaranto, ottimo stato, 200 km, sedili leopardati, tel. Francesco, ora dei pasti, 02… ecc.» una seconda mano ha aggiunto: «A France’, magna tranquillo». Ritorna il sorriso, anche in una periferia degradata.

(Gian Luigi Beccaria, LA STAMPA 6 marzo 2016)

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