Ordine esecutivo 9066
Roosevelt autorizza l’internamento dei Giapponesi che vivono negli Stati Uniti, lungo la costa del Pacifico.
Era il 19 febbraio 1942 e con l’Ordine Esecutivo 9066 Roosevelt autorizzava a “isolare” all’interno di “Aree Militari” i nippo-americani che abitavano lungo le coste del Pacifico. Le famiglie ebbero una settimana di tempo per raccogliere le loro cose, svendere quello che possedevano, chiudere le loro case, liquidare le attività commerciali. I loro conto correnti furono bloccati, i loro beni furono confiscati, furono arrestati tutti gli uomini influenti, come gli insegnanti, i rappresentanti religiosi, i capi di comunità, i dirigenti, per paura che potessero incitare alla rivolta. La versione ufficiale del governo fu che la misura, del tutto preventiva, avesse il duplice scopo di proteggere le coste del Pacifico dall’invasione giapponese e gli stessi giapponesi dalle rappresaglie del resto della popolazione. Sempre secondo la versione ufficiale, si trattava di una soluzione temporanea e assolutamente a carattere umanitario.
Tutto ebbe inizio con l’attacco al porto di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 da parte dei giapponesi i quali, guidati dal generale Isoroku Yamamoto, inflissero una notevole perdita alla flotta americana, mandando fuori combattimento 18 navi. Durante i bombardamenti persero la vita 2403 americani e 1178 restarono feriti. I giapponesi persero 29 aerei, un grande sommergibile e cinque sottomarini. I morti furono 64. Roosevelt dichiarò guerra al Giappone e alle sue alleate Germania e Italia. In America fu alimentata una campagna a mezzo stampa che avvertiva dell’imminente attacco giapponese sulle coste del Pacifico. I giapponesi che vivevano da molti anni nel Paese, i loro figli e i loro nipoti, furono accusati di tradimento.
L’odio, covato ormai da un secolo, dilagò e iniziò una campagna diffamatoria: i giapponesi facevano concorrenza sleale ai contadini e ai pescatori americani, costituivano una minaccia per la virtù delle donne bianche con i loro vizi e la loro lussuria, contaminavano la cultura occidentale con i loro costumi e la loro religione. Iniziarono le retate e le detenzioni. Furono confiscati fucili, coltelli, strumenti da lavoro, kimoni da cerimonia, statuine religiose, documenti e scritti in lingua giapponese. Due mesi dopo Roosevelt firmò l’Executive Order 9066 che autorizzava l’evacuazione di ogni persona di origine giapponese dalla West Coast e legalizzava i campi di concentramento. In Arizona, Idaho, Montana e Utah, dichiarate zone militari, dovevano essere costruite le strutture di accoglienza.
Nel marzo del 1942 fu emesso il primo dei 108 proclami militari sulla deportazione, i muri delle città costiere erano tappezzati dagli ordini di evacuazione e dalle misure restrittive: i giapponesi potevano muoversi solo con un permesso speciale e nel raggio di otto chilometri dalle loro case, e dovevano rispettare il coprifuoco notturno dalle ore venti alle sei del mattino. Molti di loro erano cittadini di seconda generazione nati in America (nisei), ma bastava avere un bisnonno nato in Giappone per essere ritenuto un traditore. Iniziò l’internamento forzato per molte migliaia di persone che videro andare in rovina la loro vita, senza sapere dove sarebbero state portate e per quanto tempo.
Molti giapponesi immigrati di prima generazione (isei) si presentarono volontariamente ai centri di trasferimento, per dimostrare lealtà e gratitudine nei confronti del Paese che li aveva accolti e aperta condanna all’attacco di Pearl Harbor, ma molti giovani, nati in America, seminarono disordini e furono rinchiusi in spietati centri di detenzione, come ad esempio Tule Lake.
Durante la seconda guerra mondiale furono imprigionati quasi 120 000 giapponesi nei dieci campi di concentramento che sorsero negli Stati Uniti e di questi il primo ad essere costruito e il più conosciuto è il campo di Manzanar, a più di trecento chilometri a nord di Los Angeles, a est delle montagne della Sierra Nevada. Durante i quattro anni di esistenza del campo vi furono internate 11070 persone, tra donne, uomini, bambini e anziani. Manzanar significa “campo di mele” in spagnolo ed è stato designato come sito storico di interesse nazionale per l’eccezionale stato di conservazione delle strutture del campo. Organizzato in stile militare, ospitava chiese, negozi, un ospedale, un ufficio postale, e un auditorium per la scuola, ma la vita al suo interno non era facile, c’era sovraffollamento, uomini e donne avevano servizi igienici in comune, gli alloggi erano assegnati spesso in modo casuale, così le famiglie venivano divise e costrette a convivere con estranei.
Anche se privati della libertà, gli internati cercarono di sopravvivere in qualche modo, organizzando numerose attività, anche di carattere religioso, e fondando un giornale, il Manzanar Free Press. Il direttore del campo, Ralph Merrit, nel 1943 incaricò il suo amico fotografo Ansel Adams di documentare quello che stava succedendo a Manzanar. Adams catturò i momenti di vita quotidiana degli internati, evidenziandone la determinazione e la resistenza. Le fotografie furono raccolte nel libro Born Free and Equal, pubblicato nel 1944, dopo essere passato attraverso le maglie della censura. Manzanar e gli altri campi furono chiusi nel 1945, ma l’impatto sociale della riacquistata libertà fu traumatizzante e molti internati non sapevano dove andare.
Nel 1980, il presidente Jimmy Carter avviò un’indagine per stabilire se l’internamento dei giapponesi nei campi, soprattutto di quelli con cittadinanza americana, fosse giustificato dal punto di vista legale. La motivazione fornita dal Presidente Roosevelt per dare l’avvio alla deportazione verrà condannata dalla Commissione Presidenziale voluta dal Congresso degli Stati Uniti, poiché dagli esami effettuati risultò che l’Ordine Esecutivo 9066 non fu suffragato da alcuna necessità militare, ma solo dal pregiudizio razziale.
Nel 1988 il Presidente Ronald Reagan firmò un documento in cui gli Stati Uniti si scusavano per la deportazione e l’internamento dei cittadini giapponesi. La Commissione, denominata “giustizia personale negata“, fino ad oggi non ha trovato prove di slealtà da parte dei giapponesi e ha sollecitato il governo a pagare un risarcimento ai sopravvissuti. L’ammontare dei risarcimenti a cui si è giunti sotto la presidenza Reagan è di 20.000 dollari per ogni sopravvissuto ai campi di concentramento.
(Nadia Loreti/com.unica, 7 marzo 2016)