La politica della rabbia
Quali antidoti per contrastare l’avanzata del populismo nelle democrazie avanzate? L’analisi di Dani Rodrik, studioso della globalizzazione e docente ad Harvard.
CAMBRIDGE – Forse l’unico aspetto davvero sorprendente della reazione populista che ha sconvolto la politica in molte democrazie avanzate è il fatto che abbia impiegato così tanto a emergere. Soltanto due decenni fa, era facile prevedere che la riluttanza dei politici a fornire un antidoto alle insicurezze e ineguaglianze della nostra era iper-globalizzata avrebbe creato un ambiente politico favorevole a demagoghi dalle soluzioni facili. Allora c’erano Ross Perot e Patrick Buchanan; oggi abbiamo Donald Trump, Marine Le Pen e molti altri.
La storia non si ripete mai veramente, ma le sue lezioni sono comunque importanti. Andrebbe ricordato che la prima era della globalizzazione, che culminò nei decenni precedenti alla prima guerra mondiale, finì per produrre una reazione politica ancora più violenta.
L’evidenza storica è stata ben sintetizzata da Jeffry Frieden, un mio collega di Harvard. Nel periodo clou del Golden Standard, sostiene Frieden, gli attori della scena politica tradizionale dovettero frenare su riforme sociali e identità nazionale per dare priorità ai legami economici internazionali. La reazione che ne derivò assunse due forme diverse nel periodo interbellico, entrambe fatali: socialisti e comunisti scelsero le riforme sociali, mentre i fascisti optarono per l’affermazione nazionale. Entrambe le strade allontanarono i passi dalla globalizzazione portandoli verso la chiusura economica (e molto peggio).
La reazione a cui assistiamo oggi difficilmente si spingerà a tal punto. Per quanto siano stati onerosi, gli sconvolgimenti legati alla grande recessione e alla crisi dell’euro impallidiscono di fronte a quelli che caratterizzarono la Grande Depressione. Le democrazie avanzate hanno costruito – e conservano (nonostante le recenti difficoltà) – ampie reti di sicurezza sociale in forma di sussidi di disoccupazione, pensioni e aiuti alle famiglie. Oggi l’economia mondiale si avvale di organismi internazionali funzionali – come il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – di cui non disponeva prima della seconda guerra mondiale. E, dulcis in fundo, movimenti politici estremisti, come il fascismo e il comunismo, sono stati ampiamente screditati.
Eppure, i conflitti tra un’economia iper-globalizzata e un sistema di coesione sociale sono reali, e le élite politiche tradizionali li stanno ignorando a loro rischio e pericolo. Come sostenevo nel mio libro Has Globalization Gone Too Far? (‘la globalizzazione si è spinta troppo oltre?’) scritto nel 1997, l’internazionalizzazione dei mercati di beni, servizi e capitali crea uno spartiacque tra i gruppi qualificati, professionali e cosmopoliti in grado di trarne vantaggio e il resto della società.
Durante il processo, due forme di divergenza politica tendono a inasprirsi: una divergenza sul fronte dell’identità, articolata sulla nazione, sull’etnia o sulla religione, e una divergenza sul fronte del reddito, che ruota attorno alla classe sociale. I populisti traggono il loro fascino dall’una o dall’altra: quelli di destra, come Trump, puntano a una politica dell’identità, mentre quelli di sinistra, come Bernie Sanders, enfatizzano il divario tra ricchi e poveri.
In entrambi i casi, c’è un “altro” ben definito su cui sfogare la propria rabbia. Arrivate a stento alla fine del mese? La colpa è dei cinesi che ci hanno rubato il lavoro. La criminalità vi turba? Colpa dei messicani e degli altri immigrati che importano le loro guerre tra bande. Avete paura del terrorismo? Ovviamente, è colpa dei musulmani. La corruzione politica è un problema? Ma cos’altro potremmo aspettarci se le grandi banche finanziano il nostro sistema politico? A differenza delle élite politiche tradizionali, i populisti riescono facilmente ad additare i responsabili dei mali delle masse.
Certo, i politici dell’establishment sono compromessi per il fatto di essere stati al comando tutto questo tempo. Ma sono anche immobilizzati dalla loro narrazione, che trasuda inerzia e impotenza.
Questa narrazione attribuisce la responsabilità della stagnazione dei salari e della disuguaglianza crescente a forze tecnologiche al di fuori del nostro controllo. Essa considera la globalizzazione e le regole su cui poggia come un qualcosa d’inesorabile e inevitabile. L’antidoto che offre, cioè investire nell’istruzione e nell’acquisizione di competenze, promette pochi vantaggi immediati e, nella migliore delle ipotesi, lascia intravedere dei frutti soltanto dopo alcuni anni.
In realtà, l’odierna economia mondiale è il prodotto di decisioni esplicite che i governi hanno preso in passato. Fu una scelta non fermarsi all’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT) e creare l’assai più ambiziosa – e invadente – Organizzazione Mondiale del Commercio. Allo stesso modo, implicherà una scelta la possibilità di ratificare altri mega-accordi commerciali come il Partenariato Trans-Pacifico (TPP) e il Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti (TTIP).
È stata una scelta dei governi quella di allentare le regole della finanza e puntare a una piena circolazione transfrontaliera dei capitali, così come è stata una scelta mantenere queste politiche perlopiù inalterate, malgrado un’imponente crisi finanziaria globale. E come ci ricorda Anthony Atkinson nel suo magistrale libro sulla disuguaglianza, neanche il cambiamento tecnologico è immune dall’autorità governativa: i politici possono fare molto per influenzare la direzione del cambiamento tecnologico e garantire che esso porti a un aumento dell’occupazione e a una maggiore equità.
Il fascino dei populisti è legato al fatto che essi danno voce alla rabbia degli esclusi, offrendo una narrazione grandiosa, così come soluzioni concrete, quando non fuorvianti e spesso pericolose. La politica tradizionale non riuscirà a recuperare il terreno perduto finché non offrirà anch’essa soluzioni serie che lascino spazio per la speranza. Non dovrà più nascondersi dietro la tecnologia o l’inarrestabile globalizzazione, bensì dovrà essere disposta ad armarsi di coraggio e a considerare una riforma radicale del modo in cui viene gestita l’economia nazionale e globale.
Se una delle lezioni che la storia insegna è il pericolo di una globalizzazione fuori controllo, un’altra riguarda la malleabilità del capitalismo. Furono il New Deal, lo stato sociale e la globalizzazione controllata (sotto il regime di Bretton Woods) a dare alle società orientate al mercato una seconda vita e a generare il boom postbellico. Questi obiettivi furono raggiunti non con un mero armeggiare o modificare politiche esistenti, bensì grazie a una radicale riorganizzazione istituzionale.
Politici moderati, prendete nota.
Dani Rodrik, project-syndicate, marzo 2016
* Dani Rodrik è professore di Economica Politica Internazionale alla Harvard University. Tra le sue maggiori opere segnaliamo La globalizzazione intelligente (Laterza 2011) e il più recente Ragioni e torti dell’economia (UBE 2016).