Un reportage dall’inferno delle carceri libiche dell’inviato de “La Stampa” Domenico Quirico.

Il migrante numero 322 alzò lentamente la testa e aprì gli occhi. Non capivo se fosse svenuto o avesse soltanto dormito. Del resto tra una cosa e l’altra non c’era grande differenza. Da un pezzo la disperazione, l’esaurimento avevano compiuto la loro opera. L’una e l’altra erano, ogni volta, come uno sprofondare in abissi pantanosi da cui era impossibile riaffiorare. Mi viene in mente una frase che mi disse un migrante cristiano: «Nella testa io ho l’inferno, sai. Può essere una posizione di favore per l’aldilà, se è come lo raccontano i preti. Una parte dell’inferno noi l’abbiamo già avuta qui».

Il 322 restò fermo un istante, in ascolto. Nel cortile, scandito dalle porte delle celle, il sole invadeva le pareti nude di cemento, alte venti metri, ovunque è diffusa questa umida luce che produce ombre così tenui sui muraglioni giallastri. La rete di ferro che chiudeva il cielo, in alto, e lo metteva, anche lui, in prigione, e il filo spinato arrotolato come una parrucca disegnavano sottilissimi, quasi invisibili segni. Era il restare immobile una vecchia regola dei migranti: perché non si sa mai da che parte viene il pericolo e fino a quando non ti muovi hai sempre la possibilità che non ti vedano o che ti prendano per un cadavere. Semplice legge di natura, qualunque insetto la sa. Non c’era rumore. La distribuzione del cibo doveva ancora cominciare, tutti i migranti erano chiusi nelle celle da cui veniva solo un lieve pianto di bimbi e le ninne nanne delle madri per farli rimanere tranquilli. I guardiani erano impegnati a discutere con me e due giornalisti spagnoli. Il 322 godeva fino all’ultimo istante il privilegio di esser lì fuori, sdraiato contro la parete calda di sole. Gli era toccata la fortuna di portar via le immondizie: trecentoventidue, un «anziano» anche se ha 24 anni. Dopo ho scoperto che era qui da più di un anno e in lui si era accumulata una massa smisurata di sofferenze e di piccole vittorie, di miracolosi attimi di pace come questo e di abissi vuoti. Il campo di raccolta dei migranti di Garabuli sonnecchiava tranquillo al sole della primavera libica, indifferente ai drammi che conteneva come uno scrigno. Nel cortile più piccolo quattro neri erano accucciati a terra, in fila davanti alla stanzetta del medico.

Non ho mai visto nulla di così orribile quanto questa posizione da bestie, vestiti di stracci, le mosche che facevano nido nei capelli. Aspettavano tremando di febbre con un atteggiamento di così incrollabile rassegnazione come se avessero atteso già da centinaia di anni e sapessero che dovevano attendere ancora per altre centinaia. Dal cortile della prigione non si poteva vedere la campagna adagiata nella limpida luce primaverile e neppure la linea azzurra del mare, appena oltre le file di olivi e di aranci. L’avevo attraversata tutta quella campagna, la strada bella ma malinconica serpeggiava a zig zag attraverso lunghi viali di eucalipti stanchi dell’inverno.

I migranti li avevo già incontrati, in un tratto di landa a basse dune cespugliose di piantagioni di fave che racchiudevano il piatto orizzonte. Poca terra e molto cielo: erano apparentemente liberi, fatti uscire di giorno perché venduti ai contadini della zona per pochi dinari. Schiavi? Sì, schiavi, felici di poter, per qualche ora, vedere il sole, toccare la terra e l’erba grassa. Sono venuto a Garabuli, sulla strada che porta da Tripoli a Misurata, per cercare i migranti, gli africani, che non ci infastidiscono, che non ci danno pensiero: perché il loro viaggio interminabile verso il mare e noi, si è fermato qui, forse per sempre. E sono diventati, a migliaia, prigionieri delle galere libiche, schiavi, ostaggi, vittime senza nome e senza memoria. Ci sono dodici «centri» come questo solo a Tripoli. Da principio c’era solo il 322, poi, a un cenno di una guardia, le porte delle celle si spalancano e il cortile della prigione si affolla e pare che tutto l’edificio gridi. Grida dalla lunga fila delle donne che si allineano con l’automatismo dei reclusi, in mano la ciotola per il cibo, grida dalle celle dei maschi ancora serrate, spuntano dagli spioncini solo occhi che si accalcano come a respirare già la luce. Si sente solo quel grido improvviso come di bestie in gabbia che vedono la possibilità di muoversi, agitarsi, fuggire. Gridano contro il cielo che è tutto silenzio.

Il responsabile del centro è elegante, in giacca, pieno di premure e di informazioni. Scopre che, cinque anni fa, sono stato prigioniero dei soldati di Gheddafi: «anch’io anch’io»… e mi mostra le sue medaglie di oppositore e di vittima, profonde cicatrici alle spalle e i segni di infinite operazioni alle gambe. Estrae dal portafoglio orribili foto: «Guarda guarda …! Mi fracassarono tutti i denti a calci e le ossa con i fucili, animali erano animali». E le foto si mischiano a quelle di lunghe file di migranti seduti a terra su un molo le braccia dietro la testa, le operazioni riuscite contro gli «africani». Penso quanto sia terribile questo senso di grande e impersonale ingiustizia che prorompe nel momento in cui destini di sofferenza si incrociano, ma l’uno non riesce a specchiarsi nell’altro, ad attingervi. Il guardiano ha attraversato un terribile dolore, ma perché, ora, quegli uomini quelle donne quei bimbi che custodisce non gli parlano, sono numeri come era lui nelle mani dei poliziotti di Gheddafi? Il nostro sentimento, la nostra pietà forse non sa contare, non diventa più intenso con le cifre. Sa contare solo fino ad uno. Se stesso. Alla parete dell’ufficio sono appoggiati i kalashnikov e una mitragliera pesante. Due dei guardiani, ragazzi grossi dall’aria impacciata, mi guardano perplessi. Uno di loro sillaba due parole in italiano, ha vissuto a Brescia. «Che facevi in Italia?» chiedo, ingenuo. Mi guarda in silenzio. «Gli africani restano qui poco tempo, li vestiamo diamo loro da mangiare, li mettiamo in contatto con le ambasciate dei loro Paesi che organizzano il ritorno in patria, tutto funziona bene». Mi fanno entrare nella prigione. Lo so: è molto difficile amare degli uomini che non sono nulla per noi, che non ci possono domandare nulla e forse non vorrebbero nemmeno il nostro aiuto. È difficile amare questi uomini e tuttavia essi sono la realtà vivente e presente del popolo dei migranti, soprattutto quelli che non vediamo. Il cui calvario non è riuscito. Rimasti senza denaro, dopo un viaggio di anni, si sono fermati in Libia per raccogliere l’ultimo pugno di dollari e guadagnarsi il mare. La trappola è scattata. Il verdetto per loro è certo, oscura la colpa. Li ha pedinati di tugurio in tugurio, a Tripoli, Misurata, Zuara, nei porti di imbarco, attraverso i cafarnai sudici di città zeppe di moschee e inutili preghiere: prima o poi viene a stanarli ed è la prigione dove non resta loro, per mesi, per anni, che lamentarsi di essere nati e cioè puniti a camminare, a partire. Da chissà chi, chissà perché.

Entro nella prigione, i guardiani non sembrano preoccuparsi che io parli con loro. Una cella delle donne è aperta, fetida fredda angusta, forse dieci persone ci starebbero, ne conto almeno cinquanta e i bambini, i bambini… La finestrella è piccola ma lascia filtrare la luce. Il quadrato infuocato del sole che si stampa sul pavimento è come il marchio della segregazione dal mondo. Un tanfo di odore umano, di cibo cattivo, di urina e di escrementi avvolge le stuoie allineate l’una all’altra, non c’è spazio, per muoversi bisogna calpestare chi ti sta vicino. Sulle pareti leggo infinite scritte: «dio è grande»… «io amo la vita». Una donna grossa, è seduta per terra in un angolo. Tiene un bambino attaccato al seno scoperto. Siede con la straordinaria dignità di un animale sano e con il diritto di una madre, fra quel frastuono e quella sporcizia. E i suoi occhi sono solo per il suo bambino. Una ragazza giovane, eritrea, esile, bellissima non è uscita per il cibo. I suoi occhi mi fissano pieni di semplice calore umano. Accarezza le dita di una collega con infinita dolcezza e mi vengono in mente le parole di Giobbe: «quello che temevo mi è accaduto, ciò che mi atterriva mi è toccato…». È incinta di quattro mesi ed è qui da più di un anno. Quante tra loro, quanti di questi bimbi? L’attesa le ha fatto perdere il turno, le altre rientrano con le ciotole del cibo, lo spartiscono avidamente. Per lei non resta nulla. Si rivolge ai guardiani che la guardano interrogativi. Spiego per lei: è rimasta senza mangiare. «Che importa, guarda che questa è diventata pazza, torna in cella…». Adesso gli uomini, tutti giovani, ragazzi, mi si affollano intorno: Ti prego ti prego, chiediamo aiuto, fai sapere che siamo qui da mesi da anni. Ci hanno rastrellati nella notte, preso i documenti, i telefonini, derubato di tutto. Eppure lavoravamo per i libici, senza dare fastidio, per pochi dinari. Qui ci sfruttano, ci chiedono denaro e ci maltrattano. Molti sono malati. Non abbiamo mai potuto avvertire le nostre famiglie, chiedere aiuto. Le ambasciate? quali ambasciate? È venuto una volta un funzionario di quella nigeriana. È andato via senza neppure parlare con i suoi».

A Tripoli, vicino al vecchio suq turco dove si cambiano milioni al mercato nero, alcuni giovani africani aspettano stando seduti dentro delle carriole. A un cenno qualcuno di loro si alza e corre a caricare enormi, pesanti valigie seguendo libici indaffarati: sono zeppe di denaro. Forse stanotte busseranno alla porta anche della loro tana.

(Domenico Quirico, La Stampa 13 marzo 2016)

 

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