L’economista Mario Deaglio sulla “Stampa” in un colloquio immaginario con il grande economista inglese: «Bisogna che a spendere sia lo Stato. In Italia il settore pubblico si blocca da solo»

Era una sera d’aprile di sette anni fa. In poco più di sei mesi la disoccupazione negli Stati Uniti era raddoppiata; la produzione industriale dei paesi ricchi aveva preso la peggior batosta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Banchieri centrali, ministri, capi di governo delle venti maggiori economie del mondo si erano da poco riuniti a Londra ed erano tornati a casa ripetendo come un mantra tibetano «il peggio è passato, il peggio è passato», ma senza saper bene che cosa fare. E proprio a Londra, in quella sera d’aprile, uscii dal British Museum dopo una giornata di studio: aleggiava una bruma sottile d’altri tempi, poche le auto in circolazione, di foggia antiquata, la luce dei lampioni era fioca; e, mentre percorrevo Gordon Square, vidi un’ombra che sembrava famigliare uscire da una bella e solida casa borghese. Faccia lunga, baffetti, capelli radi, l’aria svelta, un misto di simpatia e di arroganza. Giacca, cravatta, ombrello nettamente fuori moda. Quella faccia l’avevo già vista molte volte in fotografia, apparteneva a uno dei «padri fondatori» dell’economia moderna. Fu più forte di me, lo chiamai. 

Professor Keynes!  

Si bloccò, si voltò di scatto, come l’avessi punto. «Non mi chiami professore. Certo, sono stato fellow del King’s College di Cambridge, ho tenuto corsi, ho diretto l’Economic Journal, una delle riviste economiche più importanti al mondo. La chair, la cattedra, non me l’hanno mai voluta dare: le gelosie e le lotte interne tra accademici non le avete certo inventate voi moderni. E così sono diventato uomo di ministeri, un grande burocrate come dite voi; ma così ho imparato come va il mondo assai più di quanto avrei fatto da un’università. Ma perché non ci beviamo una birra?». Fu così che riprendemmo il discorso al Duke, un pub che non doveva esser molto cambiato dagli anni Trenta, con le sue sedie e tavoli di legno spesso.  

Già, il mondo. Non Le pare che vada piuttosto male?  

«Guardi, finora avete evitato la Terza guerra mondiale. Se vi fermate qui è già un bel risultato; noi non ne siamo stati capaci e il 1914 ci colse di sorpresa. Non state però imparando dai nostri errori. Con la Grecia continuate a comportarvi come ai miei tempi francesi e inglesi con i tedeschi, ossia come se avesse perso una guerra e dovesse pagare riparazioni fino all’ultimo centesimo. Nel 1919 proprio per la questione delle riparazioni mi dimisi per protesta dalla delegazione inglese alla Conferenza di Versailles e scrissi un saggio che ebbe grande successo dal titolo Le conseguenze economiche della pace; in estrema sintesi, le conseguenze erano quelle di preparare una nuova guerra, che in effetti scoppiò vent’anni più tardi. Il Fondo Monetario (che contribuii a creare nel 1944) ha versato, su pressione americana e senza garanzie, miliardi di dollari all’Ucraina mentre li sta negando alla Grecia. In momenti pericolosi, quando il sistema può scardinarsi, la politica non la devono fare i ragionieri e neppure le banche centrali: avete bisogno di uomini di Stato. Penso a Trump e mi viene un brivido giù per la schiena».  

Ma in definitiva come trova il nostro capitalismo?  

«In generale, il capitalismo non può dirsi un successo: non è un sistema intelligente, non segue criteri di giustizia e meno che mai di virtù. Generalmente non ci piace e un po’ lo disprezziamo, ma quando ci chiediamo con che cosa sostituirlo, abbiamo molte difficoltà. Io ho cercato di migliorarlo e mi hanno dato del comunista, magari anche perché, dopo una vita privata molto varia, ho sposato una ballerina russa. La realtà è che le mie ricette di spesa pubblica – applicate da altri dopo la mia morte a economie occidentali sostanzialmente capitaliste – hanno precisamente fatto sì che l’Europa non diventasse sovietica». 

Non Le sembra che stampando moneta a raffica, come stanno facendo le grandi banche centrali, poniamo le basi per il disastro?

«Vede, la moneta non basta stamparla e buttarla giù da un elicottero come crede ingenuamente Alan Greenspan, ex governatore della Fed, nella speranza che la gente la raccolga e la spenda. In realtà, prima che arrivi giù, la nuova moneta viene aspirata dai circuiti finanziari globali, e il rallentamento delle vostre economie non si ferma. Per questo avete contemporaneamente troppa liquidità e troppo poca inflazione, anzi una deflazione che comporta un trasferimento di ricchezza dalla parte produttiva della comunità a chi vive di rendita. L’inflazione comporterebbe un trasferimento di segno opposto. Naturalmente, inflazione e deflazione sono entrambe “ingiuste” ma, mentre l’inflazione rende leggeri i debiti e stimola le imprese, la deflazione li rende pesanti, danneggia i produttori e ammazza la crescita». 

Ma perché la gente non spende e così fa ripartire l’economia?  

«Perché, come dicevamo ai nostri tempi, se il cavallo non ha sete non si riesce a costringerlo a bere e la paura del futuro ha fatto passare la sete ai consumatori dei Paesi ricchi. Il vostro Renzi ha messo 80 euro al mese in più nelle buste paga, ma gli italiani hanno, come tutti, una paura inconscia e ne hanno spesi pochissimi. Negli Anni Trenta io feci un discorso alla radio appellandomi alle “massaie democratiche” perché andassero a comprare: i prezzi, infatti, erano bassissimi. Ma non è servito a nulla». 

Allora che cosa bisogna fare per riavviare il motore della crescita?  

«Bisogna che a spendere sia lo Stato, e il Suo paese, l’Italia, è un esempio da manuale in cui il settore pubblico si blocca da solo: la burocrazia che non lascia partire quasi nessun investimento. Sarebbe necessario che il tetto al rapporto deficit/Pil salisse almeno dal 3 al 4 per cento e tutto probabilmente si riaggiusterebbe con un ritorno a un’inflazione ragionevole, a una crescita sostenibile, a una vera ripartenza dell’occupazione. Lo aveva proposto Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo Monetario, ma fu travolto da uno scandalo provocato dalle sue smodate abitudini sessuali. Come dire: l’andamento dell’economia, come quello dei mercati, può dipendere dalle cose più impensate. In ogni caso, come scrissi in La fine del laissez-faire nel 1926, il capitalismo va “saggiamente amministrato”; altrimenti è come un bambino che può far sempre nuovi disastri». 

E i mercati dovrebbero essere messi sotto un maggiore controllo?  

«Certo. Un tempo (dopo essermi bruciato con un’operazione speculativa, anche se poi fortunatamente recuperai) scrissi che i mercati possono comportarsi in maniera irrazionale così a lungo da mandare chiunque in bancarotta. Nella vostra economia globale non c’è solo irrazionalità, c’è anche malafede: le cronache finanziarie si mescolano con quelle giudiziarie e scopriamo che grandi banche internazionali hanno fatto grandi imbrogli. I principali parametri finanziari sono stati alterati sistematicamente per anni».  

In definitiva, Lord Keynes di Tilton (visto che non vuol essere chiamato professore, La chiamerò con il titolo che le venne conferito nel 1942), secondo Lei quali speranze abbiamo?  

«Mio giovane amico (mi sento di chiamarLa così perché Lei aveva tre anni quando passai a miglior vita), si rilegga il mio breve saggio – scritto nel 1930 – sulle Possibilità economiche dei nostri nipoti (siccome l’umanità ha perso tempo, possono essere i nipoti Suoi). Se non fa stupidaggini e si tiene in equilibrio tra Stato e mercato, secondo me l’umanità ha davanti a sé un futuro bellissimo: potrete risolvere il problema della scarsità, lavorare poco e fare per gran parte del tempo quello che vi piace. E soprattutto non avrete più bisogno di economisti che vi facciano la predica». 

Non mi sembra che oggi gli economisti diano molti consigli ai loro concittadini. Mi paiono sempre più con la coda tra le gambe, sotto il peso di previsioni sbagliate e di teorie carenti.  

«Anche se non parlano, gli economisti hanno moltissima influenza, soprattutto se morti. Gli “uomini pratici”, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. Siete anche schiavi miei, e non per la mia Teoria generale – che gli uomini pratici non hanno mai letto – ma perché, con un gruppo di colleghi, ho contribuito a inventare la Contabilità Nazionale. Sì, sono corresponsabile della creazione del Prodotto interno lordo, il famigerato Pil che condiziona tutti i vostri discorsi di economia. Il Pil andava bene quando l’industria era l’attività principale. Ora l’economia è cambiata e non ve ne siete ancora accorti abbastanza». Di colpo mi ritrovai solo. Sul tavolo di legno del Duke c’era unicamente la mia birra, molti avventori avevano il cellulare. Le luci erano diventate più forti, sulla strada sfrecciavano auto moderne. Dietro il bancone, su uno schermo televisivo scorrevano le notizie economiche: la Borsa si riprendeva e l’economia continuava a rallentare. 

(Mario Deaglio/La Stampa, 10 aprile 2016)

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