Le elezioni Usa secondo Tom Wolfe
La maleducazione di Donald Trump, il radical senza chic di Bernie Sanders: l’America è un paese stupendo.
«Andrò a votare di sicuro, ma non ho la minima idea per chi». Tom Wolfe sfoggia un completo blu e bianco da dandy, scarpe multicolore, calzini con i grattacieli di Manhattan disegnati sopra, e l’abituale voglia di provocare. Lo incontriamo all’organizzazione culturale 92Y, dove è venuto per discutere lo stato dell’America e le prossime elezioni con Jeff Grenfield e il pubblico.
Si appoggia a un bastone, la cui testa è l’elaborata scultura di una volpe, e si offre volentieri a commentare una campagna presidenziale che sembra avere per protagonista un personaggio preso dal Falò delle vanità:
«La cosa straordinaria di Donald Trump è che sono state proprio l’ostentazione della ricchezza, l’arroganza e la maleducazione a renderlo estremamente popolare fra la gente comune. Gli americani lo sentono come uno di loro, perché si esprime come loro. L’elemento che ha favorito il suo successo, e quello speculare di Sanders, non è la stratificazione classista degli Usa, ma la globalizzazione, che ha portato via i posti di lavoro esacerbando gli animi».
Lei ha definito Trump un «amabile megalomane»: cos’ha di amabile?
«Non avevo mai visto prima un uomo di spettacolo capace di passare direttamente da un reality show alla candidatura per la Casa Bianca. La maleducazione, prima ancora della scorrettezza politica, è l’elemento che lo ha reso amabile e popolare. A parte il muro contro i messicani, non ha spiegato una sola cosa concreta e precisa che intende fare».
E se verrà eletto, avrà il dito sul bottone nucleare.
«Capisco la preoccupazione, ma mi attira soprattutto lo spettacolo politico che ci aspetta, a partire dalla Convention repubblicana di Cleveland che ci riporterà alle dispute aperte del passato».
Perché la classe media e bassa impoverita, privata del «sogno americano», cerca la salvezza votando un miliardario?
«Negli Stati Uniti non c’è ancora la lotta di classe, e non esiste un’aristocrazia. La storia dell’1% della popolazione più ricco e odiato l’hanno inventata i media: tutti gli americani ambiscono a diventare ricchi, e molti ci riescono ancora. Il problema è la globalizzazione, che ha portato via tanti posti di lavoro, impoverendo la gente e cancellando la speranza di migliorare la vita. Quando per scrivere I am Charlotte Simmons vivevo in un paesino della North Carolina, vedevo i reclutatori dell’esercito che venivano e arruolavano cinquanta persone al giorno. Le fabbriche della zona erano sparite, non c’erano più lavori decenti, e la gente accettava l’unica opzione rimasta. Questa oggi è la crisi dell’America».
Quella che sul fronte democratico ha creato il fenomeno Sanders?
«Esatto. Non avrei mai creduto che un socialista sconosciuto potesse avere tanto successo. Lui è un “radical”, ma non è “chic”, e forse proprio per questo è così popolare».
Perché, invece, Clinton fatica?
«Le analisi politiche qui sbagliano le valutazioni. Hillary è fisiologicamente fredda, non è programmata per fare amici, e questo per un politico è un limite grave. Da una parte, lei è molto politica, perché tutto quello che dice sembra venire da un copione e la fa apparire poco spontanea; dall’altra non lo è, e lo ha ammesso lei stessa paragonandosi al marito e al presidente Obama, perché non riesce a stabilire un contatto con gli elettori. È una roba che sta scritta nei geni, credo, nella sua natura».
La settimana prossima si vota a New York, che rischia di essere decisiva per entrambi i partiti. È una città irriconoscibile, rispetto ai tempi del Falò delle vanità: cosa l’ha cambiata?
«I bravi capi della polizia che ha avuto. Sul serio. Uno di loro mi ha raccontato come gestivano la criminalità spicciola per strada: vai il primo giorno, avverti che stanno violando la legge, e i più deboli se ne vanno; torni il secondo, dici che da domani li arresti, e quelli mediamente forti se ne vanno; al terzo fai la retata dei duri rimasti, e risolvi il problema. Dopo Giuliani e Bloomberg, de Blasio ha deciso di attenuare questi metodi: deve fare attenzione, potrebbe essere un grave errore. Ma lo scopriremo presto».
Nella New York dove lei aveva cominciato a lavorare c’erano sette quotidiani: ora ne sono rimasti tre, e due perdono milioni. Sono dinosauri in attesa di morire?
«Sì».
Perché?
«Ormai i social media sono diventati il passatempo preferito della gente, e l’informazione è personalizzata su Internet e i blog. Così però i lettori leggono solo quello che conoscono, e non scoprono mai quello che nemmeno sapevano di non sapere».
Non potrebbe nascerne un grande «nuovo giornalismo», pubblicato su una piattaforma diversa?
«Il grande giornalismo c’è ancora e trova il modo di farsi pubblicare. Io, ad esempio, amo il lavoro di Michael Lewis sul mondo finanziario. Il problema non sono le storie lunghe scritte da autori straordinari, ma il lavoro quotidiano. Ormai tanto i giornali, quanto i siti, i social o i blog, non hanno più l’ambizione di seguire tutto. Scelgono le cose da pubblicare come le ciliegie. Per me va bene, ma così sono spariti i beat, cioè gli incarichi di coprire a fondo temi o istituzioni specifiche. Il risultato è un’informazione superficiale, con cui si può fare una campagna presidenziale senza mai parlare dei tuoi programmi».
Quindi è pessimista sul futuro degli Stati Uniti?
«No, resto ottimista. L’America occupa un posto nel mondo che non ha pari. C’è disuguaglianza, ma non ai livelli di altri Paesi. Siamo sempre aperti al cambiamento e rimaniamo la terra delle opportunità».
(Paolo Mastrolilli, La Stampa 12 aprile)