In ogni sillaba di Parise c’è l’alfabeto della vita
Il gusto di viaggiare e conoscere, la naturale impoliticità della poesia e il sottile piacere di scandalizzare. Il ritratto di uno scrittore libero.
Mentre leggevo le pagine di questo bel saggio sull’opera di Goffredo Parise, (Lucia Rodler, Goffredo Parise, i sentimenti elementari, Carocci editore, pagg. 221, euro 17) mi tornava con insistenza alla mente il titolo di uno dei 49 racconti di Hemingway, La breve vita felice di Francis Macomber. Forse perché Hemigway fu uno dei primi autori amati dal giovane autore de Il ragazzo morto e le comete, forse perché c’entra la caccia, che praticò negli anni del suo ritorno alla campagna veneta, o forse, più probabilmente, perché ho sempre pensato che la vita di Goffredo Parise sia stata, nella sua brevità e intensità, una ricerca continua di quella felicità di cui il suo amico e mentore Montale aveva scritto «si cammina per te su un fil di lama»: raggiungibile e temibile, sognata e effimera.
Al contrario di tanti autori italiani, grigi burocrati dediti al conformismo e al servilismo ideologico, Parise, scomparso a 57 anni nel 1986, amava vivere e non lo nascondeva. Noi, suoi giovani lettori di allora, eravamo affascinati, oltre che dalle sue opere, dalle sue scelte di vita. Personalmente, amavo la sua predilezione per le lenzuola di lino dei letti dell’Hotel Ritz a Parigi, le sue corse su un’automobile sportiva, su cui è leggenda che il cerimonioso e appesantito Carlo Emilio Gadda avesse timore o pudore a salire, il suo gusto di viaggiare per il mondo a scoprire e raccontare nuove realtà. L’unica volta che lo vidi, fu nella vecchia libreria Einaudi della Galleria Manzoni a Milano: mi colpì per come era vestito, casual chic, metà da viaggiatore, metà da uomo di successo, per un certo fare frenetico, per la fretta di attaccarsi al telefono, accudito dal vecchio, mitico libraio Vando Aldrovandi. Lessi subito i suoi Sillabari. E devo dire che amai quella freschissima enciclopedia dei sentimenti umani scritta in una prosa nitida, elementare e profonda, essenzialmente poetica.
Lucia Rodler riporta il testo di un articolo di Parise degli anni Settanta, che inizia con questa dichiarazione: «Il mio programma non politicizzato è il seguente». Ci ricordiamo oggi cosa voleva dire proclamarsi non politicizzato in quegli anni? Anni di piombo ideologico, di parole d’ordine che non lasciavano vie di scampo. Parise lo fece con coraggio, riabilitando la poesia, «cioè quella parte alta dell’uomo» in cui affermò di credere e di aver fondato la propria vita. La poesia, scriveva Parise, non ama i partiti, i favori politici, il dare e l’avere, e aggiungeva, con un tocco di squisito snobismo, è abbastanza racée e blasée da ignorarli. La sua inutilità politica rende la poesia scandalosa e eretica. E l’opera di Parise fu insieme poetica e scandalosa. Dopo l’avvio onirico e visionario del Ragazzo morto e le comete, il successo di pubblico venne con Il prete bello, dove il tessuto narrativo si ricostruisce in un intreccio lineare, e Gastone Caoduro, «un prete molto alto, giovane e bello» entra nella vita di un caseggiato dove abita il ragazzo Sergio, voce narrante, e diventa oggetto di concupiscenza della signorina Immacolata, e poi della contessa Manina, e infine della prostituta Fedora sino all’epilogo drammatico.
Di pochi anni dopo è un libro che ho appena riletto, Amore e fervore, che prese in una edizione successiva il titolo per quei tempi scandaloso di Atti impuri. La vita di provincia, «cupo, allegro incubo», e di una provincia particolare come quella veneta, vi è descritta tra bigottismo e sensualità, con effetti grotteschi indimenticabili: penso alla pagina in cui il protagonista Marcello Lazzarotto al Caffè Goldoni viene invitato ripetutamente, sarcasticamente a prendere uno zabaglione non appena si diffonde la voce della sua tresca con la bella infermiera Ciriaci. Poi venne la stagione de Il padrone, in cui Parise rasenta le tematiche industriali di un Volponi o di un Ottieri, del Crematorio di Vienna, e dei grandi reportage dalla Cina e dal Giappone. Intanto Parise, che si era lasciato alle spalle Vicenza e Milano, lascia anche Roma e vive prevalentemente in una casa sul Piave. Lì scrive i Sillabari. In un ordine alfabetico che ha il sapore dei libri di scuola di un tempo, rilegge con grazia elementare i sentimenti dalla A alla S, quando la poesia, che va e viene, lo abbandona. Ma le voci sono tante, e già intimamente significative nel loro essere state prescelte: tra le altre ci sono Amore e Anima, Bellezza e Bontà, Fascino e Felicità, Lavoro e Libertà, Madre e Mistero, Poesia e Primavera, sino a Sesso, Sogno e Solitudine. Autore senza famiglie ideologiche, Parise appartiene, come notò Comisso, alla grande tradizione della narrativa veneta, che comprende Casanova, Foscolo, Nievo, Fogazzaro e, aggiungo io, Comisso stesso. Una tradizione di grandi narrazioni fra bellezza e ironia, sensualità e religiosità, inquietudine e avventura. E, sia stata o no felice la sua vita, Parise ci ha lasciato con la sua opera un buon viatico per una (provvisoria) felicità.
Giuseppe Conte, IL GIORNALE, 4 maggio 2016