L’omaggio a Muhammad Ali di Antonio Monda su “Repubblica”

NEW YORK. Negli ultimi anni non riusciva più a parlare, e questa era la cosa che lo faceva soffrire maggiormente: lui, che della parola aveva fatto un’arma micidiale come i suoi pugni. Era riuscito a discutere a stento con David Remnick, che gli aveva dedicato il memorabile “King of the world”, e con Joyce Carol Oates, che lo citava come modello insuperato in “On Boxing”, il più bel libro mai scritto sulla noble art.

Era stato Ali a far capire che la boxe poteva essere nobile ed addirittura un’arte, ed è per questo che era diventato il punto di riferimento anche di artisti e intellettuali, che rimanevano estasiati dalla sua genialità ed eleganza, e sconcertati per la spregiudicatezza: la stessa persona che aveva combattuto per estirpare il razzismo descriveva con epiteti vergognosi i rivali di colore, come “orribile scimmione”, affibbiato sia a Sonny Liston che a Joe Frazier. “Quanto sei brutto”, gli urlava in faccia, facendosi beffe della correttezza politica, ma poi incantava il mondo danzando come una farfalla e pungendo come un’ape.

Quei ritornelli ripetuti sino alla noia divennero i precursori del rap, e tra i primi a capirlo ci fu George Plimpton, che sedeva accanto a Norman Mailer nella notte magica di Kinshasa, “the rumble in the jungle”, quando sconfisse contro tutti i pronostici George Foreman, ipnotizzando gli spettatori africani, che cominciarono a urlare all’unisono “Boma Ye”, “uccidilo”. Sul quel match indimenticabile Mailer scrisse “The Fight”, uno dei suoi capolavori, e venti anni dopo Leon Gast diresse un documentario altrettanto bello: “Quando eravamo re”.

La semplicità delle sue parole era incendiaria, come quando motivò che non sarebbe andato in Viet-Nam perché “nessun Viet-Cong mi ha mai chiamato nigger”. La frase venne citata da James Baldwin e divenne un mantra per un’intera generazione di intellettuali di colore, come quel “what’s my name?” ripetuto ad ogni colpo scagliato contro Ernie Terrell, un pugile gigantesco che aveva osato chiamarlo Cassius Clay, il suo nome da schiavo. Ali decise di punirlo per quindici round, umiliandolo con colpi crudeli, senza mai sferrare il pugno del KO. Mailer definì quel match come un’epica moderna, eguagliata solo dalla triplice sfida con Joe Frazier, conclusa con la vittoria definitiva di Ali nel “thrilla in Manila”. In quell’occasione c’è chi ricordò la punizione inflitta da Apollo a Marsia e la Oates, scrisse, per bocca di un altro sconfitto come George Foreman, che “la boxe è lo sport al quale tutti gli altri vogliono assomigliare.”

ANTONIO MONDA/Repubblica, 5 giugno 2016

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