Storie di morte e storie di vita: la testimonianza di una psicologa di Medici senza Frontiere. “Non potrò mai accettare che si muoia così”.

Le cronache di questi giorni ci hanno fatto conoscere la tragedia dei naufragi e degli incidenti in mare accaduti nelle acque del Mediterraneo. In Sicilia i team mobili di Medici senza Frontiere sono impegnati quotidianamente senza soste per fornire una prima assistenza e supporto psicologico ai sopravvissuti di eventi traumatici come naufragi e incidenti in mare, durante e dopo le operazioni di salvataggio. Tra la fine di aprile e la fine di maggio 2016 sono stati condotti sei interventi di prima assistenza psicologica, molti dei quali in relazione ai naufragi degli ultimi giorni, inclusi 16 incontri individuali e molte sedute di gruppo.

Qui riportiamo la testimonianza di Aurelia Barbieri, psicologa impegnata nell’assistenza ai sopravvissuti ai naufragi durante gli sbarchi, raccolta sotto forma di intervista e ripresa dal sito ufficiale di Msf.

In che condizioni trovate le persone sopravvissute a un naufragio al loro arrivo in porto?

Sono persone devastate, già provate dal viaggio, lungo e pericoloso, dai loro paesi di origine e poi segnate dal periodo in Libia, dove i maltrattamenti e la ferocia sono inimmaginabili. Arrivano tutte devastate e se hanno vissuto anche un naufragio, magari perdendo pure un familiare, allora la sofferenza è immensa. Ci sono bambini che arrivano da soli, perché hanno perso i genitori in un naufragio e ci sono padri e madri che hanno perso i figli.

Qual è la cosa più importante quando i superstiti di un naufragio sbarcano in un porto?

È cercare di dare loro una accoglienza protetta, umana. Un’attenzione speciale che inizia con le cose più basilari: acqua, cibo, indicare i servizi igienici. Devono sentire che qualcuno si prende cura di loro. Noi psicologi e i mediatori culturali facciamo da “ponte” anche con i sanitari presenti allo sbarco.  Conta il fatto che trovino un “benvenuto”, una tazza di tè, un sorriso, qualcuno che si prenda cura di loro e li ascolti. Arrivano in una situazione concitata, c’è fretta, ci sono le procedure che le autorità subito devono avviare. Il nostro contributo è limitato, non avrà un impatto sul lungo termine, ma può fare la differenza per loro. È la vicinanza fra esseri umani.

Cosa ti chiedono le persone quando le incontri?

Spesso è la possibilità di telefonare a casa, per dire di essere vivi e per far sentire la propria voce. Non tutti sono pronti però in quel momento a dire di aver perso qualcuno in mare. Oppure ci chiedono notizie della persona che non trovano. Spesso ci chiedono: ma mio figlio è morto? Questa è la drammatica premessa per accompagnarli a una delle fasi più dure nelle ore successive: il riconoscimento dei corpi.

Quale telefonata ti ricordi più di altre?

Quella di una ragazza eritrea, neanche trentenne, incinta al settimo mese, che nel naufragio ha perso un bambino di 8 anni. È stata a galla per 4-5 ore in acqua. Ha telefonato alla madre, ma non è riuscita a dirle nulla sulla tragedia. Le ha solo detto che era arrivata in Italia. Era tanto che non si sentivano, ma aveva tanta voglia di sentire la sua voce. Anche le omissioni e i silenzi, contano.  Usiamo spesso  mappe o disegni quando parliamo con loro. A lei ho disegnato uno stivale per mostrarle l’Italia e, sorridendo, mi ha detto: l’ho studiato a scuola! Prima di partire, aveva cercato su una mappa il punto del mare più breve da attraversare. Lei si porterà un peso enorme per tutta la vita, perché dopo l’impegno messo in questo viaggio, il suo bimbo di 8 anni è annegato.

Sulle linee del telefono fra l’Europa e l’Africa scorrono storie di morte, ma anche storie di vita?

Pochi giorni fa, fra i superstiti, ho avuto un colloquio individuale con un ragazzo sudanese, partito con la moglie incinta di 8 mesi, disperato per essere arrivato da solo. Stava facendo asciugare alcune foto salvate nel viaggio. Dopo una prima telefonata a casa, la seconda si è conclusa dicendo Inshallà! Parlava con la sorella della moglie che l’aveva chiamata per dire di essere arrivata in Italia. Lui non se lo immaginava: per ore aveva vissuto la tragedia della perdita. Alla fine c’è stata un’esplosione di pianto e gioia da parte sua, ma anche nostra! Gli altri sopravvissuti a quel naufragio mi hanno detto che lui aveva aiutato molto gli altri in mare. E’ stato ricompensato. Storie così ci danno l’energia di andare avanti. E’ la forza della speranza.

In generale, è possibile dare cifre sulle persone naufragate?

È molto difficile, non esiste un conteggio chiaro dei numeri. Si mettono insieme le informazioni che solo i sopravvissuti possono dare. Il nostro compito è far capire loro che è importante dire se hanno perso qualcuno, dare i dettagli, ma si trovano in un grande stato confusionale. Si possono provare a dare cifre, ma sono ipotesi, stime approssimative, nulla di certo. Tuttavia, quando una dopo l’altra le persone che incontriamo ci dicono “io ho perso una sorella, io un cugino” o quando un gruppo di amici ci dice che sono partiti in 19 e sono arrivati in 9 – tutto questo può fare capire il volume di una tragedia.

Di che cosa hai paura?

Ho paura che si perda il senso di umanità, il senso della misura. Ho paura che chi guarda dall’esterno questi eventi, si abitui. Come se li si guardasse in uno schermo o al cinema. C’è il rischio di considerarli normali. Invece, ogni naufragio è una tragedia immane. Che siano centinaia o poche decine i morti, o anche una soltanto, si tratta di persone che sono state costrette a trovare la morte perché non ci sono alternative sicure. Vorrei che si mantenesse ancora uno sguardo umano. Non possiamo accettare che i bambini o gli adulti muoiano così. Io non potrò accettarlo. MAI.

(com.unica/MSF, 7 giugno 2016)

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