Il suo nome è Trump, Ronald Trump?
Lucio Caracciolo mette a confronto “The Donald” e Reagan, pure lui schernito dai liberal di allora e poi considerato uno dei più grandi presidenti della storia.
Donald Trump è un nuovo Ronald Reagan? La domanda (retorica) rivela la vena snob che ha spesso segnato l’intellettualità liberal in America e la «sinistra al caviale» in Europa. Entrambe convinte della propria superiorità morale, di interpretare il corso progressivo della storia per il bene dell’umanità. E dell’abissale ignoranza dei propri avversari.
Quando negli anni Ottanta, nell’America segnata dal disastro in Vietnam, dalla crisi degli ostaggi a Teheran, dall’invasione sovietica dell’Afghanistan e dalla penetrazione dei guerriglieri marxisteggianti in Nicaragua emerse il fenomeno Reagan, la reazione delle citate élite fu di scherno. Ma come? Un attore di serie B, ignorante del mondo e della storia, con in faccia stampato un sorriso ebete, siede al comando della superpotenza americana? Oggi che rischia di materializzarsi l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, la musica si ripete. Può questo discusso uomo d’affari, senza un vero pedigree politico, con un riporto improbabile, una retorica piuttosto basica e un machismo esibito, che un giorno sì e l’altro pure produce gaffe dal forte sapore razzistico, occupare la poltrona più ambita del Pianeta?
Prima di stabilire quanto i due abbiano o meno in comune, conviene ricordare chi davvero fosse Reagan. Il quale è ricordato oggi come uno dei più grandi presidenti della storia americana. Non fosse altro che per aver aperto la strada alla vittoria americana nella Guerra fredda e aver inaugurato una lunga fase di espansione dell’economia nazionale – non importa se per merito delle sue ricette economiche (Reaganomics) o meno. Ad ammettere la grandezza di Reagan è lo stesso Obama, quanto di meno affine a quel suo predecessore: «Io credo che Ronald Reagan abbia cambiato la traiettoria degli Stati Uniti come né Nixon né Clinton sono riusciti a fare. Ci ha indirizzato lungo un sentiero diverso perché la nazione era pronta per questo. L’America non ne poteva più degli eccessi degli anni Sessanta e Settanta, di questo governo che era cresciuto e continuava a crescere e non appariva trasparente né responsabile. Lui ha dato alla gente quello che la gente voleva: chiarezza, ottimismo, il ritorno al dinamismo e allo spirito imprenditoriale».
Reagan è stato anzitutto un grande comunicatore, in sintonia con il suo pubblico. Ha recuperato i valori tradizionali, ha ridato slancio con il suo esibito ottimismo a un Paese depresso, ha creduto nella possibilità di vincere la Guerra fredda – mentre i suoi predecessori erano impegnati a pareggiarla. Il suo modello è stato Franklin Delano Roosevelt – lui stesso fino ai cinquant’anni era registrato come democratico.
Trump è aspro, ruvido, talvolta volgare e spesso incoerente, ma non c’è dubbio che sappia trasmettere vibrazioni ai suoi potenziali elettori. Soprattutto agli americani bianchi e protestanti che non sopportano l’invasività vera o presunta del governo, non si fidano dell’establishment, temono la deriva multiculturale che sta trasformando gli Stati Uniti in un collage di minoranze. E cercano quindi un «uomo del no». Sotto questo profilo, Trump è quasi perfetto. Il problema, semmai, sorgerà quando dovesse essere chiamato a dire «sì». Ovvero a decidere.
Anche Trump, come Reagan, vuole «fare di nuovo grande l’America». Ma in tempi di Guerra fredda i fronti erano chiari: Bene contro Male, libertà contro tirannia, capitalismo contro economia pianificata. In questo mondo caotico anche un genio della comunicazione come Reagan si sarebbe trovato in difficoltà. E forse si sarebbe ripetutamente contraddetto, come Trump nella sua fulminante campagna per la conquista della nomination repubblicana. Al di là di qualche somiglianza e delle molte differenze, la facile ironia delle élite «illuminate» su Trump – come un tempo su Reagan – manca il bersaglio per almeno due ragioni. In primo luogo, il presidente degli Stati Uniti deve decidere, non tenere seminari universitari. Deve convincere la sua gente, non istruirla.
I leader molto intellettuali raramente sono efficaci, specie adesso. Ha scritto Henry Kissinger: «Quando parli con Reagan, ti domandi come quest’uomo così non–intellettuale abbia potuto guidare da governatore la California per otto anni e gli Stati Uniti per altrettanti». E lo stesso Reagan scherzava su se stesso – inclinazione non condivisa da Trump: «Sulla mia sedia presidenziale starà scritto: qui ha dormito Ronald Reagan». Come annoterà il suo biografo Lou Cannon, l’ex aspirante star di Hollywood «è stato l’unico presidente degli Stati Uniti che abbia visto nella sua elezione la possibilità di riposarsi». In secondo luogo, il titolare della Casa Bianca non è un monarca assoluto. È uno dei poteri americani, il più visibile e iconico, eppure non paragonabile al Congresso o alla Corte Suprema, che esercitano un’influenza più duratura e profonda – salvo in caso di guerra – sulla società statunitense. Il sistema di governo americano è sufficientemente robusto per sopportare un presidente ignorante e arrogante. Almeno finora. Se superasse anche l’eventuale test Trump, la peculiare democrazia a stelle e strisce si confermerebbe come la più solida al mondo.
Lucio Caracciolo*/Il Venerdì di Repubblica 3 giugno 2016
*Lucio Caracciolo è un giornalista, saggista e docente italiano. Dirige la rivista di politica internazionale “Limes” e collabora con “Repubblica” e “l’Espresso”.