Timori, ribellioni e Brexit
Un’altra opinione autorevole sul tema del giorno. Il Nobel per l’Economia Paul Krugman sul “New York Times”: il referendum inglese è una scelta tra il male e il peggio.
Purtroppo questo voto è una scelta tra il male e il peggio – dovremmo chiederci quale sia l’uno e quale l’altro. Io voterei per restare. Lo farei nella piena consapevolezza che l’Unione Europea è profondamente disfunzionale e mostra pochi segni di riforma. Ma l’uscita dell’Inghilterra – la Brexit – probabilmente renderebbe le cose peggiori, non solo per il Regno Unito, ma per l’Europa nel suo complesso.
Una corretta analisi economica ci porta alla conclusione che la Brexit renderebbe l’Inghilterra più povera. Non avrebbe come conseguenza una guerra commerciale, ma certamente danneggerebbe il commercio inglese con il resto dell’Europa, riducendo la produttività e i redditi. I miei calcoli approssimativi, che sono in linea con altre stime, indicano che il Regno Unito si ritroverebbe ad essere più povero del 2 per cento. Il che sarebbe un gran danno. C’è anche il rischio, più difficile da valutare, che la Brexit metta in difficoltà la City di Londra, che rappresenta una fonte notevole di esportazioni e di reddito. In quel caso, i costi sarebbero decisamente maggiori.
Che dire invece degli ammonimenti secondo i quali l’uscita provocherebbe una seria crisi finanziaria? Si tratta di un rischio troppo remoto. L’Inghilterra non è la Grecia: ha la propria moneta e si indebita nella propria valuta, dunque non rischia un percorso che favorisce un caos finanziario. Nelle settimane recenti la probabilità di un voto per l’uscita sono chiaramente aumentate, ma i tassi di interesse britannici sono scesi, non saliti, seguendo l’andamento del declino globale nei rendimenti.
Ciononostante, dal punto di vista economico la Brexit sembra una cattiva idea. È vero, i sostenitori della Brexit argomentano che lasciare l’UE consentirebbe all’Inghilterra la libertà di fare cose stupende – deregolamentare e mettere in libertà la magia dei mercati, portando ad una crescita esplosiva. Mi dispiace, ma questa è soltanto economia voodoo confezionata in salsa britannica; è la stessa fantasia sul libero mercato che si è dimostrata illusoria, sempre e dappertutto.
No, l’argomentazione economica non è particolarmente convincente, come di solito accade con motivazioni del genere. Perché, dunque, il mio tono dimesso in favore del “remain” nell’Unione Europea? In parte, la risposta è che gli impatti della Brexit sarebbero disomogenei: Londra e il Sud Est dell’Inghilterra sarebbero colpiti duramente, ma la Brexit avrebbe come conseguenza una sterlina più debole, il che effettivamente potrebbe essere d’aiuto per le vecchie regioni manifatturiere del Nord.
Pesa in misura maggiore però la triste realtà dell’UE che l’Inghilterra lascerebbe. Il cosiddetto progetto europeo ebbe inizio più di sessant’anni orsono, e per molti anni fu una forza potente in termini positivi. Non solo favorì il commercio ed aiutò la crescita delle economie; fu anche un baluardo di pace e di democrazia in un continente che veniva da una storia terribile.
Ma l’UE di oggi è la terra dell’euro, un errore serio, aggravato dall’insistenza tedesca a volgere la crisi provocata dalla moneta unica in una rappresentazione di tipo moraleggiante sui peccati (degli altri, beninteso), che devono essere scontati con tagli molto pesanti ai bilanci. L’Inghilterra ha avuto il buon senso di tenersi la sua sterlina, ma ciò non l’ha tenuta al riparo dagli altri problemi della eccessiva assunzione di rischi dell’Europa, in particolare quello di ammettere il libero movimento delle persone senza un governo condiviso.
Si può sostenere, ad esempio, che i problemi provocati dai rumeni che utilizzano il Servizio Sanitario Nazionale siano esagerati, e che i benefici dell’immigrazione in buona misura pareggino quei costi. Ma è un argomento difficile da offrire ad una opinione pubblica frustrata dai tagli ai servizi pubblici – in particolare quando la credibilità degli esperti favorevoli all’UE è così bassa.
Perché è questa la cosa che irrita di più dell’UE: nessuno sembra mai riconoscere o imparare dagli errori del passato. Se c’è un qualche esame di coscienza a Bruxelles o a Berlino sui fallimenti dell’Europa a partire dal 2008, è difficile scovarlo. Ed io provo qualche simpatia con i britannici che proprio non intendono dipendere da un sistema che offre un’affidabilità così modesta, anche se lasciarlo sarebbe economicamente costoso.
La domanda da porci, tuttavia, è questa: un voto inglese per l’uscita renderebbe le cose migliori? Potrebbe servire come uno shock salutare che finalmente dia una scossa ai gruppi dirigenti europei ad uscire dal loro compiacimento e porti alla riforma. Ma io ho il timore che potrebbe, per la verità, rendere le cose peggiori. I fallimenti dell’UE hanno prodotto una minacciosa ascesa del nazionalismo reazionario e razzista – ma la Brexit, anche troppo probabilmente, rafforzerebbe ulteriormente quelle forze, sia in Inghilterra che in tutto il Continente.
Ovviamente, potrei sbagliarmi su queste conseguenze politiche. Ma è anche possibile che la mia mancanza di speranza sulla riforma europea sia esagerata. Ed il punto è questo: come sottolinea Simon Wren Lewis dell’Università di Oxford, se oggi l’Inghilterra vota per rimanere, un giorno potrebbe ancora avere la possibilità di lasciare l’UE, ma l’uscita oggi sarebbe in sostanza irreversibile. Per sostenere la Brexit, si deve essere assolutamente sicuri che l’Europa sia irriformabile.
Dunque, io voterei per restare. Non ci sarebbe, in quel voto, alcuna gioia. Ma se una scelta deve essere fatta, io farei quella.
Paul Krugman/New York Times 17 giugno 2016