Errare è umano, perseverare è diabolico
Dagli inglesi una lezione di democrazia: un’analisi dell’economista Paolo Savona sulle conseguenze del referendum britannico (da L’Unione Sarda)
La maggioranza degli inglesi ha deciso di abbandonare il mercato comune europeo (il Brexit), dato che dall’euro erano restati fuori. Prima di ogni altra considerazione il cittadino italiano vuole sapere se la decisione avrà conseguenze negative sulla sua vita futura; allo stato attuale delle conoscenze, la risposta non può che essere “dipende da ciò che farà l’Unione Europea”: se nega la rilevanza del messaggio inviato dagli inglesi, come hanno finora fatto le autorità di Bruxelles e di Francoforte (non ci saranno negoziazioni e siamo pronti a fronteggiare la speculazione, non le ragioni di fondo) la situazione può precipitare; se invece si prende atto (finalmente) che le cose in Europa non vanno o, quanto meno, l’interpretazione popolare è che così sia, si deve convocare un tavolo decisionale al quale invitare anche il Premier inglese Cameron o chi subentrerà a lui, per decidere quali correzioni apportare prima alla politica e poi ai trattati.
La decisione inglese si ispira alla democrazia, un metodo di scelta collettiva che avevano elaborato un secolo prima della Rivoluzione francese, con la Carta dei diritti (Bill of Rights) scaturita dalla Gloriosa Rivoluzione (così la chiamano) del 1688, imprimendo all’umanità una spinta verso l’innalzamento del livello di convivenza civile e aprendo la strada secoli dopo alla creazione della rete di protezione sociale (il welfare). Gli inglesi hanno acquisito storicamente un prestigio culturale in materia ma, invece di partire da questa loro posizione di prestigio e proporre una rinegoziazione dei patti europei con tutti e per tutti, il loro Premier Cameron ha trattato bilateralmente ottenendo risultati inevitabilmente insoddisfacenti.
In un documento redatto a Oxford da venti economisti e politologi la settimana dopo Pasqua era stata suggerita la soluzione di una trattativa globale; esso è stato pubblicato da Milano Finanza, ma il prestigioso quotidiano inglese, il Financial Times, si è rifiutato di pubblicarlo affermando che l’idea era nobile, ma non attuabile; ha ignorato o non capito che lo scopo della proposta non era la realizzabilità di un accordo globale, ma togliere il Brexit dalle secche di un dibattito dal tema dell’emigrazione, un problema irrisolvibile sul piano umano e democratico, e aprirne uno sulla crescita del reddito e dell’occupazione, per dimostrare agli elettori e alla pubblica opinione europea che questa restava la preoccupazione primaria. Cameron ottenne da Bruxelles di limitare a 100 mila l’accoglienza di nuovo immigranti, ma gli inglesi erano già irritati dal fatto che nel 2015 essi erano stati quasi 400 mila e, quindi, il loro obiettivo era di bloccare ogni ulteriore ingresso.
Invece di uscire da questo dibattito, l’impostazione del Governo inglese e di quello europeo è stata la solita: accusare gli elettori di non essere capaci di capire i loro veri interessi di lungo periodo e diffondere paura per i costi dell’uscita. La prima accusa è consueta per i gruppi dirigenti che non amano la democrazia: ritenere che essi siano capaci di scegliere meglio del popolo. La seconda ritenere che i calcoli costi-benefici siano “strumenti di verità”, mentre sono facilmente manipolabili. I calcoli prodotti dai favorevoli a restare in Europa erano che, uscendo, ogni famiglia inglese avrebbe avuto una perdita di 4.300 sterline; i contrari hanno ribattuto affermando che avrebbero invece risparmiato complessivamente 350 milioni di sterline. La ciliegina sulla torta dell’uscita l’hanno posta i 1.285 top manager inglesi affermando che il Regno Unito doveva restare in Europa, senza rendersi conto che la loro dichiarazione confermava ciò che la maggioranza ritiene e può essere brutalmente semplificata nel convincimento che restare fosse interesse dei ricchi, non dei poveri. E’ ciò che è accaduto all’atto del Trattato di Maastricht quando Delors produsse un documento (peraltro redatto sotto la guida di un italiano), in cui sosteneva che la firma dell’accordo avrebbe prodotto una crescita nell’ordine del 4-6% in termini reali (corrispondente a una crescita dell’occupazione di circa il 2%). Abbiamo invece avuto una caduta del reddito e dell’occupazione, suscitando il sospetto nei cittadini europei che sia stata perpetrata una vera truffa.
Il politologo italiano Giovanni Sartori ha sostenuto che democrazia significa il diritto del popolo anche a fare scelte sbagliate, purché se ne assuma le responsabilità; i possibili errori non possono essere evitati se il popolo cede alle élite il diritto di scegliere per se stesso, anche perché esse deciderebbero sulla base degli interessi che rappresentano. Questa valutazione non è il frutto di una prevenzione ideologica, perché la Scuola di scelte pubbliche dell’Università della Virginia, peraltro ispirandosi alle tradizioni della Scuola italiana, ha incisivamente argomentato in tal senso; a prescindere da questo esercizio intellettuale, i cittadini europei lo hanno ampiamente accertato.
In conclusione, gli inglesi ci hanno dato una lezione di democrazia e perciò si deve tornare alle considerazioni di partenza: se non si interpreta il Brexit nel modo corretto, riconoscendo che l’Unione Europea e l’euro, così come sono stati ideati un terzo di secolo fa, prima della caduta del Muro di Berlino e dell’avvio scomposto della globalizzazione, non può funzionare. La politica delle correzioni parziali o dei patti bilaterali tra Stati non convince il popolo e la palla di neve dell’uscita del Regno Unito si può tramutare in valanga. La teoria manageriale sostiene che l’uomo reagisce, non agisce. Che altro deve succedere in Europa affinché chi ha il potere reagisca?
(Paolo Savona, L’Unione Sarda 25 giugno 2016)