Il significato della Brexit
L’economista e saggista americano Jeffrey Sachs suggerisce alcune misure per ridurre i contraccolpi legati all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. La strada maestra è soprattutto quella della cooperazione globale.
NEW YORK – La votazione sulla Brexit è stata una tripla protesta: contro l’impetuosa immigrazione, contro i banchieri della City of London e contro le istituzioni dell’Unione europea, in questo ordine. E avrà enormi conseguenze. La campagna di Donald Trump per la presidenza americana riceverà un forte impulso, così come altri politici populisti anti-immigranti. Inoltre, uscire dall’Ue ferirà l’economia britannica e potrebbe spingere la Scozia a lasciare il Regno Unito – per non parlare delle ramificazioni della Brexit per il futuro dell’integrazione europea.
Brexit rappresenta quindi un evento spartiacque che segnala la necessità di un nuovo tipo di globalizzazione, un evento che potrebbe essere di gran lunga superiore allo status quo rifiutato nei seggi britannici.
Nella sua essenza, la Brexit riflette un fenomeno che pervade il mondo ad alto reddito: il crescente supporto ai partiti populisti la cui campagna elettorale punta a un giro di vite sull’immigrazione. All’incirca la metà della popolazione in Europa e negli Stati Uniti, generalmente gli elettori della working class, crede che l’immigrazione sia fuori controllo e ponga una minaccia all’ordine pubblico e alle norme culturali.
Nel mezzo della campagna Brexit di maggio, si riporta che il Regno Unito registrasse un numero di immigrati pari a 333.000 nel 2015, più del triplo rispetto al target di 100.000 precedentemente annunciato dal governo. La notizia giunse al culmine della crisi dei rifugiati siriani, degli attacchi terroristici da parte dei migranti siriani e dei figli delusi degli immigrati di seconda generazione, e delle notizie fortemente pubblicizzate sulle aggressione a donne e ragazze da parte di migranti in Germania e in altre zone.
Negli Usa, i sostenitori di Trump si scagliano in modo analogo contro gli 11 milioni di residenti del paese senza documenti, soprattutto ispanici, che in grande maggioranza conducono una vita pacifica e produttiva, ma sono sprovvisti degli adeguati visti o permessi di lavoro. Per molti sostenitori di Trump, il fatto cruciale del recente attacco ad Orlando è che il killer era figlio di immigranti musulmani provenienti dall’Afghanistan e agiva nel nome del sentimento anti-americano (sebbene commettere un omicidio di massa con armi automatiche sia, ahimè, del tutto americano).
Gli avvertimenti che la Brexit avrebbe abbassato i livelli di reddito sono stati o liquidati del tutto, erroneamente, come pura propaganda di paura, oppure rapportati al maggiore interesse dei Leavers sul controllo dei confini. Un fattore importante, tuttavia, è stata l’implicita lotta di classe. Gli elettori della working class a favore del Leave hanno addotto che gran parte o tutte le perdite sul reddito sarebbero in ogni caso a carico dei ricchi, soprattutto dei disprezzati banchieri della City.
Gli americani disprezzano Wall Street e il suo avido e spesso criminale comportamento almeno tanto quanto la classe lavoratrice britannica disdegna la City of London. Anche questo suggerisce un vantaggio per la campagna di Trump rispetto al suo avversario in novembre, Hillary Clinton, la cui candidatura è fortemente finanziata da Wall Street. La Clinton dovrebbe prenderne atto e prendere le distanze da Wall Street.
Nel Regno Unito, a queste due potenti correnti politiche – rifiuto dell’immigrazione e lotta di classe – si era aggiunto il diffuso sentimento che le istituzioni Ue fossero disfunzionali. Sicuramente lo sono. Basta solo citare gli ultimi sei mesi di mala gestione della crisi greca da parte dei politici europei miopi e autoreferenziali. Il continuo subbuglio dell’eurozona è stato, comprensibilmente, sufficiente a scoraggiare milioni di elettori britannici.
Le conseguenze della Brexit nel breve termine sono già chiare: la sterlina è crollata a un valore minimo che non si registrava da 31 anni. Nell’immediato, la City of London dovrà far fronte a grandi incertezze, perdite di posti di lavoro e a un collasso dei bonus. I valori immobiliari a Londra resteranno congelati. I possibili effetti a cascata nel lungo termine in Europa sono enormi – inclusa la probabile indipendenza scozzese, la possibile indipendenza della Catalogna, un’interruzione della libera circolazione delle persone nell’Ue, l’ascesa della politica anti-immigranti (inclusa la possibile elezione di Trump e di Marine Le Pen in Francia). Altri paesi potrebbero indire referendum e alcuni potrebbero decidere di uscire dall’Ue.
In Europa, la richiesta di punire la Gran Bretagna pour encourager les autres, come dicono i francesi, è già alta. Questa è la parte più stupida della politica europea (molto utilizzata anche nei confronti della Grecia). La restante Ue dovrebbe, invece, riflettere sulle proprie evidenti lacune e colmarle. Punire la Gran Bretagna – ad esempio, negandole l’accesso al mercato unico europeo – non farebbe che portare a un continuo sgretolamento dell’Ue.
Cosa bisogna fare? Suggerisco diverse misure, sia per ridurre i rischi di feedback catastrofici nel breve termine che per massimizzare i vantaggi della riforma nel lungo termine.
Innanzitutto, bisogna fermare l’aumento di profughi mettendo immediatamente fine alla guerra siriana. Si può realizzare interrompendo l’alleanza CIA-Saudita per rovesciare Bashar al-Assad, così consentendo ad Assad (con il supporto russo ed iraniano) di sconfiggere lo stato islamico e stabilizzare la Siria (con un approccio simile nel vicino Iraq). La dipendenza dell’America dai cambiamenti di regime (in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria) è la profonda causa della crisi dei profughi dell’Europa. Una volta finita questa dipendenza, i recenti profughi potrebbero tornare a casa.
Secondo: bisogna fermare l’espansione della Nato in Ucraina e Georgia. La nuova Guerra Fredda con la Russia è un altro errore costruito dagli Usa con tutta l’ingenuità europea. Chiudere le porte all’espansione della Nato consentirebbe di allentare le tensioni e normalizzare le relazioni con la Russia, rendere stabile l’Ucraina e rilanciare il focus sull’economia europea e sul progetto europeo.
Terzo: non bisogna punire la Gran Bretagna. Bisogna controllare i confini nazionali e dell’Ue per fermare i migranti illegali. Non si tratta di xenofobia, razzismo o fanatismo. È buon senso che i paesi con il sistema di previdenza sociale più generoso del mondo (Europa occidentale) dicano no a milioni (anzi centinaia di milioni) di potenziali migranti. Lo stesso vale per gli Usa.
Quarto: bisogna rilanciare il senso di equità e opportunità per la working class delusa e per coloro la cui vita è stata compromessa dalle crisi finanziarie e dalla delocalizzazione dei posti di lavoro. Ciò significa seguire l’etica social-democratica che prevede un’ampia spesa sociale per sanità, istruzione, formazione, apprendistato e sostegno alla famiglia, finanziata tassando i ricchi e chiudendo i paradisi fiscali, che stanno eviscerando il gettito pubblico e inasprendo l’ingiustizia economica. Significa altresì concedere finalmente alla Grecia una riduzione del debito, così mettendo fine alla lunga crisi dell’eurozona.
Quinto: bisogna concentrarsi sulle risorse e cercare altri aiuti per lo sviluppo economico, e non guerre, nei paesi a basso reddito. La migrazione incontrollata dalle regioni povere e di conflitto diverrà irrefrenabile, a prescindere dalle politiche di migrazione, se il cambiamento climatico, la povertà estrema e la mancanza di competenze e istruzione comprometteranno il potenziale di sviluppo di Africa, America centrale e Caraibi, Medio Oriente e Asia centrale.
Tutto ciò sottolinea la necessità di passare da una strategia di guerra a un approccio di sviluppo sostenibile, soprattutto da parte di Usa ed Europa. Mura e recinzioni non fermeranno milioni di migranti che fuggono da violenza, estrema povertà, fame, malattie, siccità, inondazioni e altri mali. Solo la cooperazione globale è in grado di farlo.
Jeffrey D. Sachs, project-syndicate 26 giugno 2016
* Jeffrey D. Sachs (Detroit 1954) è un economista e saggista statunitense. Insegna “Sviluppo Sostenibile e Politica e gestione sanitaria” alla Columbia University di New York, dove dirige anche l’Earth Institute. Nel 2004 e nel 2005 la rivista americana “Time” l’ha inserito nella lista delle 100 personalità più influenti del pianeta.