Così quarant’anni fa lo Stato di Israele nacque la seconda volta
Un blitz liberò 107 ostaggi di un commando. E tutto il mondo vide l’orgoglio di un popolo.
Solo una spinta imprescindibile, una necessità morale dettata dalla storia, poteva ispirare quaranta anni fa, il 4 di luglio, un’azione come quella che Israele osò condurre a 3500 chilometri di distanza dai propri confini, a Entebbe, in Uganda, per salvare i 106 ostaggi imprigionati nel terminal dell’aeroporto da un commando palestinese-tedesco.
Forse si tratta del gesto più impossibile mai realizzato da un Paese per affermare un principio salvando vite umane. Il commando di soldati israeliani contava cento ragazzi divisi in squadre, di cui la prima era guidata da Yonathan Netanyahu, il fratello dell’attuale primo ministro. Yoni fu l’unico soldato ucciso durante l’operazione. L’obiettivo: piombare di sorpresa in soccorso degli ebrei prigionieri, scardinando per sempre la norma per cui gli ebrei sono facile preda della follia antisemita.
Due membri del gruppo palestinese di Wadie Haddad, insieme a un uomo e una donna tedeschi, Wilfried Böse e Brigitte Kuhlmann, membri della banda comunista Baader Meinhof, il 27 giugno sequestrarono il volo Air France 139 da Tel Aviv ad Atene e Parigi. I terroristi salirono ad Atene, armati di pistola e bottiglie molotov nascoste in scatole di caramelle e in una falsa bottiglia di champagne. Böse, che aveva pernottato all’Hotel Rodos, una volta penetrato con le armi nella cabina di pilotaggio mentre i suoi compagni tenevano sotto la minaccia del fuoco i 246 passeggeri, si dichiarò il nuovo comandante del volo nelle mani, disse, della «Che Guevara Force» e gli dette il nome «Haifa».
L’aereo fu fatto atterrare a Bengasi, in Libia, e poi dopo il rifornimento si diresse a Entebbe, in Uganda, il Paese nelle mani della follia violenta e opportunista del dittatore Idi Amin Dada, che ospitò e aiutò i terroristi per stringere un rapporto col mondo arabo e sfruttare le prede che portarono nell’hangar maggiore dell’aeroporto. Nella vicenda i palestinesi furono le belve al guinzaglio dei due comunisti tedeschi, sempre più simili nel comportamento ai loro genitori nazisti, per istinto e per scelta. Dal primo momento l’obiettivo sono chiaramente gli ebrei: sono loro il classico nuovo-antico odiato nemico, la preda necessaria contro «l’imperialismo e il capitalismo sionista», come spiegò Böse, ridotti a oggetti, sottouomini, merce di scambio con quaranta prigionieri palestinesi di Israele. La donna urla «Schnell, Schnell» spingendo di corsa, come fossero deportati scesi dal treno di Auschwitz, la massa dei viaggiatori verso l’hangar della prigionia; mostra solo un odio maggiore quando un anziano viaggiatore le mostra il numero del campo di concentramento che ha tatuato sul braccio. E con Böse compie, una volta fatti entrare tutti i viaggiatori terrorizzati, accatastati sul pavimento, fra cui bambini e vecchi, il gesto che probabilmente spinse il governo israeliano a tentare l’impossibile: la selezione degli ebrei, dando all’antisemitismo la sua forma moderna, quella dell’identificazione con lo Stato d’Israele.
I passaporti vengono ammucchiati su un tavolo, tutti gli israeliani vengono fatti passare in una hall adiacente tramite un buco nel muro creato dai volenterosi soldati di Idi Amin Dada, e dei passeggeri ne restano 107 con la squadra di piloti, le hostess, gli stuart francesi che si sono rifiutati di lasciare i prigionieri. Gli ebrei vengono chiamati uno a uno per nome, con la voluttuosa perversione di ripetere una scena tipicamente nazista. Gli altri vengono liberati, e l’aereo riparte con i suoi «ariani».
Per capire come si arrivò a decidere l’inosabile, si deve immaginare che la scena a Gerusalemme è di indicibile angoscia. Un amico di Yitzhak Rabin, la cui figlia era stata rapita, gli chiese direttamente (in mezzo alla tempesta di interrogativi che occupava la stampa, la radio, l’opinione pubblica, le menti di Shimon Peres ministro della difesa e di Motta Gur capo di Stato Maggiore): «Fino a quando giocheranno alla roulette coi nostri figli?». Il massacro di Maalot del 1974, in cui erano stati assassinati dai palestinesi 22 ragazzi, era ancora molto vicino, come la strage di Monaco.
Furono giorni di ansia terribile; l’incertezza durò persino per una parte del volo di otto ore con cui gli Hercules israeliani, nottetempo, raggiunsero l’obiettivo. Il permesso giunse solo quando il commando era già vicino alla meta in mezzo a una tempesta di fulmini. Ma durante i tre giorni precedenti, mentre si avvicinava la scadenza del mezzogiorno del 4 luglio in cui i primi ostaggi, secondo l’annuncio dei terroristi, sarebbero stati giustiziati, un piano era già stato disegnato in silenzio, provato, rivisto in ansiose riunioni con Netanyahu e Muki Betzer, alla testa dell’unità speciale della Sayeret Matkal, oltre che col comandante Dan Shomron. Rabin, Peres e Gur sapevano di non avere le informazioni indispensabili per un’operazione tanto rischiosa. Yoni ebbe con Peres un incontro a quattr’occhi quando ormai Rabin aveva quasi avviato una trattativa con i terroristi. Peres chiese a Yoni se pensava di potercela fare, Yoni gli risposte che gli pareva di sì, anche se aggiunse che spesso non si hanno tutte le informazioni necessarie quando ci si avvia a una impresa di grandi dimensioni. Rabin ebbe l’eroismo di decidere per il sì.
Molti nomi di primo piano come Matan Vilnai, Shaul Mofaz e Ehud Barak furono implicati nella preparazione e nella realizzazione del piano a velocità supersonica. Dal primo dei quattro aerei partiti da Tel Aviv prese la via del terminal nel buio, contando sulla sorpresa, un commando di 29 persone con in testa una Mercedes nera seguita da due jeep, a simulare una visita di Idi Amin Dada. In una sparatoria improvvisa con le guardie, proprio al terminal, Yoni fu colpito a morte. Ma ciò non impedì la liberazione degli ostaggi e l’uccisione dei terroristi. Nonostante la sparatoria, il commando israeliano lavorò come un orologio. La forza d’animo di Yoni (e quella di Betzer, il quale oggi reclama per sé una parte maggiore nell’impresa di quella che, nell’ombra della memoria di Yoni, gli è stata attribuita), è rimasta l’impronta maggiore nella memoria collettiva di Israele. La sua immagine di ragazzo puro falciato sul campo mentre amava la vita, è diventato il modello di quell’audacia incurante che tutto il mondo invidia a Israele, quella che l’ha portata a bombardare il reattore di Osirak (altra impresa impossibile), a rapire Eichmann, a vincere con inimmaginabile velocità la Guerra dei Sei Giorni. Entebbe è, con la Guerra dei Sei Giorni, l’impresa che più di ogni altra ha cambiato l’immagine degli ebrei nel mondo. Non più pecore al macello, ma padroni della loro vita e anzi protagonisti di imprese impossibili per la maggior parte dell’umanità; non più abbandonati al fato e alla violenza, soli, ma col diritto di pensare che qualcuno verrà, e saranno i soldati di Israele. Nessun ebreo è più solo al mondo da quando esiste Israele.
Di israeliani ne morirono tre. La morte di Yoni resta uno degli episodi più tragici della storia di Israele; la gioia incontenibile di fronte al ritorno di figli, mogli, madri, ne fu funestata come oggi lo è il vitale lavorio quotidiano di un Paese democratico dai quotidiani attacchi terroristici.
Come allora, nel mondo nessuno dedica alle sue tragedie parole di solidarietà, né gli viene in aiuto, come invece Israele fa con altri Paesi colpiti dal terrorismo. Dopo Entebbe il Consiglio di Sicurezza dell’Onu discusse una richiesta di condanna di Israele. Proprio così, e Kurt Waldheim descrisse l’operazione «una seria violazione della sovranità di uno Stato membro». Misera consolazione: la mozione non passò. Ancora oggi, a ogni risposta di Israele al terrore, il Consiglio di Sicurezza cerca di condannare Israele.
Fiamma Nirenstein, IL GIORNALE 2 luglio 2016