L’Italia non è il Paese dell’odio
L’uccisione di Emmanuel Chibi Namdi a Fermo riporta a galla il problema del malcontento sociale, quel disagio che si va a legare con l’odio e il razzismo.
In Italia non siamo razzisti. L’omicidio di Fermo è un gesto criminale isolato, commesso da un individuo sicuramente fragile, che ha fatto ricorso spesso alla violenza, e la fedina penale lo conferma, come modalità di autoaffermazione. Dal dopoguerra, dopo le Leggi Razziali, dopo la Shoah, abbiamo compreso dove porta il razzismo, ne conosciamo le sfumature, l’odore. Siamo in una Europa, in un mondo, in cui una certa politica non fa che esacerbare il malcontento e i conflitti, anziché mediare ed educare alla tolleranza. Creare un clima di odio fa sì che alla lunga si arrivi a commettere azioni criminose, come l’uccisione del nigeriano, morto per aver difeso la moglie dall’insulto “scimmia africana”.
L’atmosfera che si respira è quella della diffidenza nei confronti degli stranieri che entrano nel Paese, di insofferenza. Essi incarnano il perfetto capro espiatorio per giustificare le falle e la miopia di una politica economica assolutamente fallace, che diffonde un messaggio pericoloso per le sue implicazioni, e cioè che viene destinato ai profughi e agli immigrati quel denaro che invece spetterebbe ai poveri e ai bisognosi italiani. C’è un certo martellamento nei confronti dei migranti. C’è martellamento quando si diffonde, si inculca nelle menti, la paura dell’invasione. E la risposta al martellamento è l’odio, l’odio che infiamma gli stadi, il web, le strade, gli animi. E l’odio colpisce, l’odio uccide. La politica, la cultura e i mass media devono recuperare il ruolo di mediatori e sfumare i sentimenti dell’odio. Recuperare l’attenzione e l’accortezza necessarie a far circolare le giuste parole e le giuste informazioni. Recuperare la responsabilità personale di ognuno di noi.
Non credo che l’Italia sia razzista, non lo è l’Italia che ha visto i suoi figli migrare per “la Merica” a fine Ottocento. Non lo è l’Italia che ha i suoi figli negli Stati Uniti, in Argentina, in Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Germania. In Asia: Bangkok, Singapore… la nostra è una società mista, fortunatamente multietnica, aperta agli scambi, empatica per eccellenza. La nostra è anche una società che sta invecchiando, a crescita prossima allo zero; i movimenti migratori nella storia dell’umanità hanno ridisegnato intere comunità, rispondendo anche a fabbisogni di manodopera. È da sempre stato fondamentale il ruolo svolto dalla società ospitante con le sue politiche di accoglienza, il soddisfacimento delle domande di lavoro immigrato, il plasmare l’insediamento nella realtà del territorio, determinando il rapporto con i cittadini autoctoni.
Oggi la figura dell’immigrato si è diversificata rispetto al passato. L’immigrato non è più prevalentemente di sesso maschile, poco qualificato e poco istruito: ci sono molte donne, purtroppo con scarse possibilità di promozione sociale rispetto agli uomini, ci sono molti medici, ingegneri, tecnici informatici. Molti di loro arrivano con la famiglia al seguito. Parecchi sono utilizzati come lavoratori stagionali, soprattutto nell’agricoltura. Altri lavorano nell’imprenditoria. Esiste, è vero, un numero di persone senza occupazione, che arrivano in Italia per ricongiungersi con i familiari. Esistono i rifugiati, vittime nel loro paese d’origine, di persecuzioni legate alla razza e alla religione, e i richiedenti asilo, che sfuggono a situazioni di instabilità e chiedono protezione.
Sicuramente il fenomeno migratorio ha bisogno di una gestione più accurata da parte delle forze deputate a farlo. Se c’è disordine nella gestione, si arriva fisiologicamente all’intolleranza e all’odio. La cronaca di questi giorni ci restituisce uno scenario preoccupante, ma il senso di fondo è che siamo arrivati a un punto di non ritorno. Fermo, Dallas, Dacca, hanno un denominatore comune: l’odio, l’esaltazione e purtroppo l’ignoranza. Non esiste una formula magica per risolvere il disagio e il malcontento, ma dobbiamo essere in grado di guardare dentro di noi e ritrovare quella spinta, quella motivazione, quel sentimento che ci fa guardare queste persone, sfortunate e bisognose di aiuto, come a una parte di noi. Quella parte che va accolta, abbracciata, guidata a entrare nel nostro tessuto sociale.
(Nadia Loreti/com.unica 9 luglio 2016)