Vincent Van Gogh, inquieto e geniale outsider
… e avrei voluto dirti “Vincent, questo mondo non si meritava un uomo bello come te” (Roberto Vecchioni, Vincent)
Vincent Van Gogh è entrato nell’immaginario popolare per i suoi dipinti più famosi, I Girasoli e Notte Stellata, le crisi di follia e il suicidio (presunto). In realtà non è stato solo questo, non dipinse soltanto girasoli, iris e cieli vorticosi sul Rodano. Probabilmente non sono state ancora colte pienamente l’ambivalenza artistica e la potenza di Vincent: pittore aperto con sincerità e incanto alla natura e all’uomo, immedesimato con l’Universo che lo circondava, egli cozzò brutalmente contro il senso di transitorietà che caratterizzava la sua vita e il presagio di morte tipico dei suoi tempi, a cavallo tra i secoli XIX e XX, quando gli uomini, faccia a faccia con l’esistenza, ne subivano il peso e la tragicità, fino all’autodistruzione. Sono proprio gli artisti in questo momento storico a soffrire di più, perché hanno il compito di rappresentare la caduta dell’Uomo e del mondo che lo contiene. Il XIX secolo, non a caso, è il secolo “disumano” per eccellenza, quello che vide emergere artisti sofferti, tormentati, spinti al confine con la pazzia, che condividevano un dolore e una disperazione troppo vicini allo spirito di sacrificio, di immolazione. Hölderlin, Kleist, Goya, Nietzsche, Dostoevskij, Van Gogh soffrono tutti lo stesso dolore per la caduta dell’Uomo e la perdita di Dio. La malattia di Van Gogh, la sua solitudine, il senso di abbandono e di vuoto, sono la metafora di quella maladie du siècle, che lo storico dell’arte Hans Sedlmayr spiegherà con la perdita del concetto di Dio, ormai soppiantato dalla razionalità, dalla tecnica e dal denaro, che hanno impoverito l’umanità, privandola della salvezza. Van Gogh visse e naufragò in una vita di tormenti, nello sforzo instancabile di essere riconosciuto e accettato. Si sentiva insignificante rispetto alla grandiosità dell’arte e i suoi pensieri suicidi esprimevano questa tensione, insieme a uno straziante bisogno di appartenenza.
La sera del 27 luglio 1890, Vincent fece ritorno faticosamente alla locanda dei coniugi Ravoux dove aveva una camera, ad Auvers sur Oise, un villaggio a 30 chilometri da Parigi. Aveva una grave ferita al petto provocata da un colpo di pistola. Il medico locale, sperando per il meglio, lo fasciò senza essere riuscito ad estrarre la pallottola. Quando arrivò suo fratello Theo, avvertito nonostante il suo parere contrario, lo trovò disteso che fumava la pipa, sereno. Le sue ultime parole furono una sorta di congedo: “vorrei che fosse la fine”. Morì alle prime luci del mattino del 29 luglio, a 37 anni. Nella tasca della sua giacca fu trovata una lettera indirizzata a suo fratello Theo, mai spedita. Sembrava una lettera d’addio e per decenni la tesi del suicidio è stata quella più accreditata, anche se non era preda delle sue temutissime crisi da molto tempo. Alcune ricerche condotte recentemente da Steven Naifeh e Gregory White Smith, contenute nel libro Van Gogh: The Life, hanno dimostrato che Van Gogh non si è suicidato, ma è stato vittima di un incidente fatale. A sparargli accidentalmente fu il sedicenne René Secretan, mentre giocava al cow-boy. René aveva un fratello, Gaston, che era molto amico di Vincent e insieme trascorrevano molto tempo nei campi mentre il pittore dipingeva. La questione fu liquidata come suicidio perché non si volle alzare un polverone e denunciare un ragazzo che apparteneva a una famiglia in vista. Lo stesso Vincent, dopo aver inizialmente detto al dottor Mazery e al dottor Gachet che gli avevano sparato, cambiò versione e affermò di aver tentato di uccidersi. Nel 1930 lo storico dell’arte John Rewald era arrivato alle stesse conclusioni, esaminando alcuni particolari della ferita riportata da Van Gogh. La traiettoria obliqua seguita dalla pallottola nell’addome del pittore non faceva pensare, infatti, a un suicidio ma a un omicidio. Tra l’altro le costole non presentavano fratture, come se il colpo di pistola fosse arrivato da lontano.
Vincent nacque il 30 marzo 1853 a Zundert, in Olanda, in una famiglia protestante, seguace del partito di Groninger, una corrente liberale della chiesa olandese riformata. Venne alla luce esattamente un anno dopo la nascita di un primogenito dei Van Gogh che morì subito dopo ed ebbe il suo stesso nome, Vincent Willem. Questa triste coincidenza lo segnò probabilmente per tutta la vita. Come non gli giovò crescere in un ambiente chiuso e bigotto, dal quale cercava di liberarsi attraverso le sue violente crisi. Terminati gli studi, andò a lavorare presso alcune succursali della casa d’arte parigina Goupil e Cie, ma non si sentì mai tagliato per quell’attività, né si sentì mai parte di quella famiglia di arrivisti e bacchettoni provinciali. Nel 1875 si trasferì in Francia, dove risiedeva suo fratello Theo, a cui era molto legato. Qui scopre la pittura impressionista e approfondisce l’interesse per l’arte e le stampe giapponesi, irretito dai misteri dell’Oriente, soprattutto conquistato dall’ukiyo-e, stampa artistica su carta, realizzata con matrici di legno. A Parigi conosce Paul Gauguin e Tolouse- Lautrec, con i quali avrà un legame turbolento. Con Gauguin dividerà la casa ad Arles, la Casa Gialla in cui avrebbe voluto creare una comunità di artisti. Con Gauguin avrà un violento litigio che terminerà con il lobo di un orecchio mozzato, il suo, e la partenza precipitosa di Gauguin per Tahiti. Sette mesi dopo Vincent morì. La partenza del suo amico lo provò in maniera profonda. Dipinse le sedie su cui erano soliti sedere. Sedie di legno e paglia vuote, con poggiati alcuni oggetti, due libri e una candela su quella di Gauguin, una pipa sulla sua. Due quadri diversi, dominati ognuno da una sedia che occupa l’intera tela fino al bordo, quasi a diventare il monumento all’implorazione, all’attesa. La sedia di Vincent è dimessa e poco comoda, quella di Paul è elegante e confortevole. Un oggetto di uso quotidiano che diventa simbolo di presenza-assenza, di incontro e di solitudine. Nel periodo della malattia, durante il suo ricovero in manicomio, Vincent scrive ad Albert-Emile Aurier “… ho cercato di dipingere il suo posto vuoto”.
Vincent Van Gogh è considerato uno dei più grandi pittori, simbolo dell’Espressionismo. Dipinse febbrilmente circa 870 tele, anche se il numero non è preciso a causa di alcune attribuzioni discusse. Del suo patrimonio, molti dipinti sono andati bruciati o dispersi, e molti sono di proprietà sconosciuta.
La figura dell’artista sofferente e predestinato alla malinconia è tipica del Romanticismo, mentre l’avanguardia vede questo andare a morire come un atto di ribellione. In realtà nessuno può conoscere le afflizioni e le inquietudini che avviluppavano la sua mente. Solo la serie sconvolgente dei suoi lavori e le numerosissime lettere, scritte non soltanto a Theo, possono darci le indicazioni sulle reali condizioni dell’artista. Sicuramente in cuor suo sentiva di aver raggiunto il punto finale della sua evoluzione, che si stava per chiudere il cerchio aperto in Olanda all’inizio della sua carriera artistica. Come se avesse dei presentimenti torna indietro e si lascia trasportare nei luoghi più familiari: il suo ultimo capolavoro, Campo di Grano con Corvi reca le tracce dei suoi presagi negli uccelli che piombano dall’orizzonte, le strade fangose senza uscita e l’atmosfera temporalesca, in contrasto con il grano dorato. Venne sepolto il 30 luglio: la bara era rimasta esposta in una stanza piena dei suoi ultimi quadri, come se fosse un reliquario, avvolta in un semplice telo bianco e ricoperta di fiori, soprattutto girasoli. Accanto, il cavalletto, il seggiolino da campo e gli attrezzi da pittore. Alle tre del pomeriggio venne trasportato al cimitero di Auvers, vicino ai campi di grano e sotto una distesa di cielo azzurro, come nei suoi dipinti. La disperazione si impossessò di suo fratello Theo, che a soli due mesi dalla sua scomparsa si ammalò per non riprendersi più. Alla sua morte, avvenuta il 25 gennaio 1891, fu sepolto accanto a Vincent, quel fratello che aveva tanto amato e per il quale continuò fino alla fine a nutrire speranze.
(Nadia Loreti, com.unica 29 luglio 2016)