Gli invisibili legami tra arte e politica
Alain Elkann intervista per “La Stampa” Ruth Direktor, curatrice al Museum of Art di Tel Aviv
Ruth Direktor, lei è curatrice d’arte contemporanea al Museo d’arte di Tel Aviv: mi descrive il suo museo?
«Il Museum of Art di Tel Aviv ospita arte moderna e contemporanea ed è stato il primo a essere allestito in Israele. Fu fondato nel 1932, agli albori della città, e la sua prima sede fu la residenza privata del primo sindaco, Meir Dizengoff. Dizengoff diceva che ogni città degna del nome dovrebbe avere un viale, una piazza e un museo. Non era un esperto d’arte e aveva una visione piuttosto ingenua del museo, ma adorava l’arte. Lui e la moglie non avevano avuto figli e nel testamento scrisse che il museo era la sua “adorata creatura”. Chiese a Marc Chagall – il più famoso artista ebreo del tempo – di dirigerlo. Chagall non poté accettare l’offerta, ma mantenne i contatti con Dizengoff e fu lui a donare il primo dipinto al Museo: “Ebreo con la Torah”, del 1925. Ancora oggi è registrato con il numero “1” nella nostra collezione. In seguito ci furono altre donazioni, soprattutto da collezionisti e artisti ebrei. Gradualmente il museo ha messo insieme una collezione completa e importante di arte moderna, che è permanente, e anche una raccolta più piccola di antichi maestri».
Cosa è accaduto al museo dopo la morte di Dizengoff?
«Nel 1936 l’edificio fu più volte ristrutturato per adattarlo alle esigenze museali. Ma, espandendosi il museo, la casa divenne sempre più inadeguata e nel 1959 fu trasferito in una nuova sede. Nel 1971 il museo ebbe di nuovo bisogno di spazi più grandi e venne trasferito nell’attuale sede. Nel 2011 fu aggiunta un’ala e, quindi, oggi presenta tre diversi stili».
Che tipo di mostre e che genere di eventi organizzate?
« Ogni anno abbiamo circa 34 mostre temporanee, accanto alle collezioni permanenti di arte israeliana e internazionale. Ci sono diversi auditorium polifunzionali che ospitano letture, conferenze, concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli di danza e altro ancora».
Ad esempio?
«Le cito un’esibizione davvero unica che si è tenuta l’anno scorso: è una performance del gruppo israeliano Public Movement. Il punto di partenza è un fatto storico, la proclamazione dello Stato d’Israele nella galleria del Tel Aviv Museum, il 14 maggio 1948. I Public Movement volevano dimostrare come l’identità nazionale sia legata all’identità artistica. Vestiti con uniformi bianche, si esibivano a orari fissi. Accompagnavano gruppi di 25 persone in una specie di visita guidata. Una delle tappe era una replica della galleria che ospitò la proclamazione, compresi i dipinti originali appesi ai muri come silenziosi testimoni di quel momento storico. Lì mettevano in scena una cerimonia basata su quell’evento, con una variante: cantavano il loro inno e non quello nazionale. Il museo stesso serviva come materia prima per il lavoro dei Public Movement. Correvano e saltavano; camminavano in formazione da parata e danzavano la hora, una danza folkloristica, declamavano tutti insieme e si baciavano. La loro sintassi si fonda sull’estetica, sulla coreografia e sul potenziale erotico dei movimenti dei giovani corpi. Le loro coreografie s’ispirano a un mondo di azioni militari, movimenti giovanili cerimonie solenni ed eventi in contesti nazionalisti. Il loro tour di 50 minuti lascia confusi: è una cerimonia? Una parata? Chi impersonano i membri dei Public Movement? Sono ironici? È vero quello che dicono?»
Quanti visitatori avete?
«Circa 650 mila all’anno. Il numero di visitatori è considerato un indice di successo. Ma, se posso tornare al caso dei Public Movement, non sempre il numero è ciò che conta. Essendo una performance ad accesso limitato, il loro spettacolo è andato avanti solo per sei settimane con 26 repliche per settimana e 25 persone per volta. E, nondimeno, è stato un progetto eccezionale».
L’arte contemporanea è viva in Israele?
«C’è una vivace vita artistica. Ci sono molte scuole d’arte e la maggior parte ha un master in belle arti . A Tel Aviv ci sono gallerie private, spazi gestiti dagli artisti stessi e spazi non-profit, oltre a un fitto programma di esibizioni ed eventi artistici».
Quali sono i maggiori artisti israeliani?
«Quelli di maggior successo sono Michal Rovner, Yael Bartana, Sigalit Landau, Guy Ben Ner, Omer Fast, Mika Rutenberg, Keren Zitter, Ilit Azoulay, Nevet Itzhak e altri. Non sorprende che la maggioranza siano videoartisti o, comunque, artisti che lavorano soprattutto con i video. A differenza della pittura e della scultura, campi in cui gli artisti israeliani sentono lo svantaggio dell’essere privi di una tradizione artistica, con i video il discorso è diverso».
La difficile situazione del suo Paese ha grande influenza sugli artisti?
«La situazione politica influisce molto. È presente in modo dichiarato nelle opere d’arte e anche in modi più nascosti. Un artista, Moshe Gershuni, nel 1977, scrisse nell’ambito di un lavoro sperimentale a Gerusalemme: “Il problema della pittura è il problema palestinese.” Anche se è stata scritta quasi 50 anni fa, è ancora una frase che colpisce e fa pensare: davvero il problema dell’arte è il conflitto politico?».
(Alain Elkann, LA STAMPA 31 luglio 2016)