Il decennio 1950-1960, che si apre con la terza serie di ‘Comunità’ e si chiude con la morte di Adriano Olivetti (febbraio del 1960), è fortemente influenzato dal tema della modernità.

Di una certa modernità naturalmente, quella che va declinandosi negli anni della ricostruzione sotto i crismi di uno sviluppo urbanistico che vince la sfida lanciata contro le persistenti insenature del mondo rurale, ma spesso compromette gli equilibri tanto da renderne problematico il passaggio.

Si tratta di un argomento che muove per vie laterali rispetto al dibattito sul posizionamento politico della proposta olivettiana, ma ne integra le dimenticanze, puntualizza alcuni dettagli a un livello di coinvolgimento radicale, si propone perfino nei termini di una grande riflessione sulla civiltà e sul destino a cui si avviano gli individui nel momento delle grandi scelte strategiche, prima fra tutte l’addio al modello contadino-artigiano a favore dell’industria. Il vero obiettivo di questo discorso non è tanto l’accettare o il rifiutare i principi di modernità che vanno affermandosi in quel momento (pilotare i nascenti consumi, accontentare il pubblico, venire incontro all’esigenza di massificare), né di mettere a nudo le debolezze o esaltarne il valore vincente di tali soluzioni, quanto il suggerire alternative all’affermarsi di questa idea di modernità, il ribadire cioè che accreditarsi dentro l’orizzonte industriale non necessariamente significhi voltare le spalle alle civiltà contadina-artigianale.

Semmai è vero il contrario. Tra i compiti che la rivista si propone, infatti, c’è anche quello di frequentare le sacche di dissenso, manifestare sfiducia verso le diverse epifanie del nuovo, denunciare il potenziale rischio di fallimento. Un’operazione così ardita deve per forza muoversi su un terreno che va al di là dei bisogni politici, anzi presuppone una serie di incursioni nei settori dell’urbanistica e della sociologia, secondo una prospettiva indiretta rispetto al concetto di industrializzazione manifestato dagli ambienti olivettiani, ma certo rap- presentativa di una particolare disposizione a vivere i problemi del proprio tempo come engagement culturale, come risposta adeguata ai possibili scenari che il futuro va disegnando.

A un primo grado di discussione risulta subito chiaro che il paradigma del moderno è nient’affatto coincidente con la civiltà industriale (da contrapporre, com’è ovvio, alla civiltà della terra) e dunque sarebbe vano rintracciare sulle pagine della rivista una sorta di apologia del nuovo senza filtri e senza reticenze. Non vi è alcuna esaltazione dell’industria come credo religioso e nemmeno proclami di carattere trionfale sul tecnicismo e sulle virtù della scienza. Piuttosto è vivo l’obiettivo di contrapporre al facile e fin troppo scontato pronunciamento a favore delle macchine la messa in discussione di quei valori, di quelle conquiste, perfino di quelle forme – politiche, sociali, economiche e architetturali – fino ad allora interpretate quale epifanie di antitradizione.

La terza serie di ‘Comunità’ si presenta, dunque, come un periodico adatto al ripensamento morale più che di bandiera aziendale e il nucleo fondativo dei numerosi discorsi presenti verte su questioni che scansano le facili dicotomie (città/campagna, poveri/ricchi, emigrazione/ permanenza, economia di mercato/economia di sussistenza) per intraprendere invece un programma che intende rileggere i segni di ciò che comunemente viene percepito come sviluppo o progresso fino a rivisitare il concetto stesso di moderno. Ne scaturisce un quadro d’insieme in cui una serie di fenomeni macroscopici assume valore determinante per le sorti del Paese e risponde sempre alla medesima domanda: in che misura le forme in cui si declina il moderno, tra ricostruzione e boom economico, debbano per forza essere considerate dentro la luce di una ortodossia o perché invece non sia lecito ipotizzare soluzioni di altro tipo?

Anche se mai pronunciata ad alta voce, una domanda di questo tipo presuppone una sfida che la rivista lancia non solo ai luoghi di potere, ma anche alla classe degli intellettuali e, indirettamente, alle testate coeve, da quelle finanziate da aziende (‘Civiltà delle Macchine’, ‘Pirelli’, ‘Rivista Italsider’, ‘Ferrania’, ‘La Rivista del Vetro’) ai fogli più strettamente legati al mondo della cultura e della politica: ‘Politecnico’, ‘Rinascita’, ‘Il Contemporaneo’, ‘Nord e Sud’, ‘Tempo Presente’. Uno dei grandi temi dibattuti con una certa continuità, probabilmente il più rispondente alle esigenze di organizzazione del territorio, riguarda il rapporto di coincidenza tra sviluppo economico e modello di vita urbana. È chiaro che un argomento simile manifesti caratteri di forte caratura olivettiana sia per i numerosissimi richiami alla dimensione architettonica a cui si ispira, per vie dirette e indirette, l’intero operato dell’ingegner Adriano, sia per il desiderio di inserire un problema di così vasta portata dentro (e non fuori) il discorso comunitario.

La novità riguarda il tipo di impostazione che alla trasversalità dello sguardo (nel dibattito intervengono architetti e non) aggiunge una non comune capacità di trasferire i problemi relativi alla costruzione delle città dal piano puramente specialistico a quello della discussione culturale. Rispetto a tali questioni la rivista olivettiana denuncia elementi di discontinuità e costruisce una vera e propria sintassi della contromodernità.

Giuseppe Lupo, Avvenire 22 settembre 2016

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