Quattro anni fa moriva lo storico Piero Melograni. Lo vogliamo ricordare con un ritratto a firma di Giuliano Ferrara uscito su “Il Foglio” del 27 settembre 2012.

La borghesia intellettuale romana ha prodotto anche belle sorprese, storie non pigre, personalità di un’intelligenza ironica e felicemente provocatoria. Una di queste è Piero Melograni (15 novembre 1930-27 settembre 2012), comunista, anticomunista, storico, saggista, cultore di musica, traduttore di Machiavelli in italiano moderno; e per una legislatura (1996-2001) parlamentare di orientamento liberale nel gruppo di Forza Italia.

Come molti della sua generazione e del suo giro di amicizie e cultura, Melograni si iscrisse al Pci giovanissimo, alla fine del fascismo e dopo la nascita della Repubblica edificata sulle sue ceneri. Ne uscì dopo la repressione sovietica della rivoluzione ungherese, nel 1956, insieme con un movimento di persone (idee forti, in controtendenza) divenute intolleranti dello stalinismo e delle sue conseguenze. Non si fece come molti altri timidamente filocomunista, non visse sotto la tutela della cultura cosiddetta liberal (in Italia da sempre compagna di strada dei comunisti); divenne anticomunista, e per questo furono oggetto di dannazione e inimicizia imperitura il suo successivo lavoro di storico, di saggista critico delle ideologie (particolarmente di quelle antimoderne), di pubblicista liberale e di politico per una sola stagione, attirato a metà dei Novanta dal fenomeno Berlusconi.

Un po’ gli dispiaceva il fatto di dispiacere, di essere considerato un reprobo pur essendo solo uno che pensava con la propria testa e aveva il coraggio di non essere scioccamente testardo. Ma in complesso se ne infischiava. Aveva un’inclinazione a proteggere la dimensione privata e intima dell’esistenza contro le sciagure del pettegolezzo, scrisse su questo giornale un diario delle delusioni patite come parlamentare che era del tutto privo di petulanza, di acrimoniosità e di narcisismo, un testo asciutto e politicamente molto rivelatore della sua onestà di carattere e di un fallimento che andava profilandosi, quello del berlusconismo liberale e individualista delle origini. Melograni aveva titoli importanti per starsene appartato nella migliore accademia e nel mondo delle case editrici di storia, e aveva interessi musicali che coltivava affettuosamente ed esplosero nella sua bella vecchiaia di scrittore con libri su Mozart e Toscanini. Sua una delle celebri interviste-libro scandalose della casa Laterza (Colletti contro le ideologie del Novecento, De Felice contro le interpretazioni convenzionali del fascismo). Melograni tirò fuori da un eterodosso di talento come Giorgio Amendola, vecchio capo comunista venuto da una grande famiglia liberale, idee nuove e non banali sull’antifascismo, su una linea che incrementava lo spirito di indipendenza e di ricerca dei cosiddetti “revisionisti”.

Decise di correre un’avventura politica due anni dopo l’entrata in scena di Berlusconi e della sua armata, in vista delle elezioni post ribaltone del 1996. Fece gruppo con altri intellettuali come Lucio Colletti, Saverio Vertone, Marcello Pera, Giorgio Rebuffa. Ciascuno percorse una sua parabola, più o meno efficace, e tutto finì nella dispersione. I liberali non hanno mai fatto corpo nella Repubblica, mai furono nucleo di classe dirigente, sempre hanno agito da singoli e da insofferenti. Melograni non fece eccezione, ma seppe con stile impeccabile uscire dall’avventura senza piagnistei, rimboccandosi le maniche e riprendendo e accudendo con amore il suo mestiere di sempre, la scrittura, il pamphlettismo, la cura solitaria e socievole delle idee personali.

Giuliano Ferrara da IL FOGLIO del 27 settembre 2012

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