“In Europa si legge per il gusto di leggere, in Israele per arrabbiarsi con l’autore: i miei personaggi sono bersagliati dai tassisti”. Intervista alla Stampa del grande scrittore israeliano, in Italia per ricevere il Premio «Bottari Lattes Grinzane 2016» per la sezione «La Quercia». 

Per quarantadue anni, ogni venerdì, Amos Oz ha telefonato al defunto presidente israeliano Shimon Peres per ragionare con lui di politica, della pace possibile in Terra Santa, del futuro del Medioriente ma anche di letteratura e libri. L’ha raccontato lui stesso due settimane fa durante i funerali dell’amico al Monte Herzl: non c’è politico senza l’uomo e non c’è uomo senza narrazione. Giornalista, autore di classici come Una storia d’amore e di tenebra, più volte vicino al premio Nobel, coscienza critica del suo paese, irriducibilmente incline alla funzione maieutica dell’intellettuale, il 77enne Amos Oz parlava con Peres come parla ogni giorno con milioni di lettori, convinto che al principio fu il verbo e che alla fine sarà lo stesso.  

Prima di ricevere il Premio Bottari Lattes Grinzane 2016 terrà una Lectio Magistralis sull’importanza della lettura, specie per i giovani. È la nuova provocazione di Amos Oz nell’Italia in cui gli under 30 non frequentano molto i libri e gli under 20 non li frequentano affatto?  

«Seppure fosse così non è detto che sia la fine, per secoli i libri sono stati appannaggio d’una ristretta minoranza. Tuttavia il fatto che i giovani non leggano più romanzi è triste perché leggere una storia significa diventarne un po’ coautore, partecipare alla creazione dell’opera come non avviene con nessun’altra arte». 

Leggere è penetrare le parole, un’attività controcorrente rispetto allo zeitgeist della società Twitter. Come si difende il libro nell’era dei 140 caratteri?  

«Oggi la gente vuol consumare tutto rapidamente, il fast food ma anche l’amorefast, il viaggio fast, la lettura fast. Per me è l’opposto, i massimi piaceri della vita sono quelli che si assaporano lentamente». 

Quanto fanno rima brevità assoluta e profondità di senso?  

«Possono farne. La poesia può esprimere idee complesse in pochi versi. Alla poesia però è precluso quanto è prerogativa del romanzo, tracciare la traiettoria e i cambi di direzione della vita delle persone». 

Il ’900 ha consacrato l’intellettuale impegnato. Non le sembra che il nuovo millennio sia iniziato nel segno del divorzio tra letteratura e politica?  

«Bisogna distinguere tra scrittori e letteratura. Nella storia ci sono stati bravi scrittori intensamente coinvolti nella politica, ma mai buona letteratura politica. La buona letteratura non può essere un manifesto e un manifesto efficace non ha nulla della letteratura. C’è la vita politica degli scrittori e ci sono le opere». 

I suoi libri sono adorati in Europa ma paiono suscitare sentimenti contrastanti in Israele. Nemo profeta in patria?  

«In Italia, Svezia o Svizzera si legge per il gusto di leggere. In Israele si leggono i libri per arrabbiarsi con l’autore. È un piacere diverso. Molti tassisti appena mi riconoscono si scagliano contro i miei personaggi che non avrebbero dovuto innamorarsi di un arabo, non sarebbero dovuti immigrare, mille obiezioni legate alla storia. Mi usano per parlare con i miei libri, è commovente. La letteratura è una provocazione ma non per forza politica. La vera funzione provocatoria della letteratura è spingere il lettore a confrontarsi con le sue priorità, la famiglia, il sesso, la morte». 

Nel romanzo «Lo stesso mare» fluttua il destino incrociato di israeliani e palestinesi. I suoi libri sono tradotti in arabo?  

«Alcuni di loro sono stati tradotti in arabo a Beirut da una coraggiosa casa editrice. È il caso di Una storia di amore e di tenebra e Michael mio. Giuda è in via di traduzione. So che circolano copie in Libano, Egitto, Iraq, in Arabia SauditaLo stesso mare invece è tradotto in 20 lingue ma non in arabo. Ricevo feedback diversi, chi mi ritiene il megafono della propaganda sionista e chi invita a leggermi per imparare a scrivere. È molto difficile nella società araba leggere un autore israeliano». 

È tradotto anche in Iran?  

«Uno dei miei libri di leggende, D’un tratto nel folto del bosco, circola in Iran in versione pirata. Mi dispiace per le case editrici ma per me essere piratato in Medioriente è un onore, un riconoscimento speciale». 

Ha attraversato il ’900, il secolo breve alla fine del quale, secondo Fukuyama, la Storia doveva terminare. Non è successo: la letteratura tiene il passo?  

«Non tocca a me competere con i media nella copertura del presente. Scrivo spesso storie ambientate 50 anni fa per comprendere cosa accade oggi. Noi scrittori siamo figure strane, una specie di mostri con la testa e il collo voltati all’indietro». 

Quale libro tiene sul comodino?  

«Posso dire quali libri leggo, rileggo e posso rileggere all’infinito. Cechov, Faulkner, Dostoevskij, Tomasi di Lampedusa, Agnon, la lista è lunga». 

Leggere è attività nostalgica e conservatrice o rivoluzionaria?  

«Noi scrittori abbiamo la testa rivolta all’indietro ma in fondo è per tutti così. Sognare non è forse guardare al passato? La letteratura è sogno, scrivere e leggere è come sognare. L’uomo affabulava prima di inventare l’alfabeto, raccontare storie è un bisogno umano come sognare e fare sesso. Non credo che i libri spariranno: magari li leggeremo sui muri, sul soffitto, col telecomando, ma l’esigenza di creare storie sopravviverà». 

Conosce di certo le polemiche su Elena Ferrante: vince l’identità dell’autore o quanto scrive?  

«Alcune delle storie più belle non hanno autore. La Bibbia, i miti greci, Shakespeare. Celarsi o rivelare la propria identità attiene al business degli scrittori, le storie sono altro». 

Due dei suoi ultimi libri affrontano il terrorismo, «Contro il fanatismo» e «Paradise now». Cosa c’è nella testa di un fanatico?  

«Il fanatismo è un malessere antico, molti grandi protagonisti letterari erano fanatici, don Chisciotte, Riccardo III, Lady Macbeth. C’è un gene fanatico in tutti noi. Oggi assistiamo a un drammatico aumento dei fanatici perchè il mondo è difficile e le risposte semplici sono balsamo a portata di mano». 

La letteratura ci vaccina dalla sofisticata narrativa jihadista?  

«Il fine giustifica tutti i mezzi, come credono i fanatici, o la vita ha un fine in sé? Nella buona letteratura la vita è un miracolo, ogni uomo è un fenomeno unico nell’umanità. In questo senso sì, la buona letteratura può contrastare la narrativa di morte di fanatici e terroristi». 

Tra buoni e cattivi libri, dove va il Medioriente? E il mondo?  

«Per rispondere dovrei essere un profeta e vivendo nella terra dei profeti non mi metto in competizione. Non so dove andiamo ma so dove dovremmo andare: via dal fanatismo, verso umorismo e compassione». 

Ricordando Shimon Peres ha detto che quando l’ex presidente israeliano è caduto l’ha fatto perché guardava le stelle. È un’immagine che sintetizza letteratura e vocazione politica?  

«Molti vivono senza scopo, vite perse. L’uomo si differenzia dalla bestia per la sua capacità di sognare. I sogni possono essere mostruosi, ma senza sogni la vita è un deserto». 

(Francesca Paci, La Stampa 15 ottobre 2016)

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