Lawrence Ferlinghetti: “Grazie Bob Dylan hai riscattato chi credeva nei sogni della Beat Generation”
Il Nobel on the road. Intervista di Repubblica al grande vecchio della cultura ribelle: “Con la musica ha fatto arrivare la poesia dove non era arrivato neanche Ginsberg. Mentre gli intellettuali dormono, l’Accademia di Svezia ha avuto coraggio: questo è un premio all’America sconfitta di Steinbeck. Dovevano dargli anche quello per la Pace”.
«Bravo Bob, bravo», sussurra in un italiano felice Lawrence Ferlinghetti. Per il grande poeta e scrittore americano, che ha vissuto quasi un secolo su questa Terra, «il Nobel di Dylan è il Nobel di una generazione. Chi è rimasto di noi dovrebbe esserne fiero. Bob Dylan è la vera, unica eredità della Beat Generation nel XXI secolo».
A 97 anni, dorati da una rara e toccante lucidità, Ferlinghetti è l’ultimo padre vivente della Beat Generation. La generazione che ha coccolato Bob Dylan, prima che anche lui se ne andasse on the road, per la sua strada. Dagli anni Sessanta lo frequentò anche Ferlinghetti quel menestrello del Minnesota: «Una volta eravamo io, Bob Dylan e Allen Ginsberg a un Cafè in San Francisco e ci cacciarono perché eravamo troppo bohémien, troppo matti. Ma non posso definire Dylan un amico, quello semmai era Allen Ginsberg. Io non sento Bob da molti anni».
Lawrence Ferlinghetti, in Italia pubblicato da Minimum Fax che di recente ha riproposto il suo capolavoro A Coney Island of the Mind, parla dalla sua casa di San Francisco, nel quartiere italiano North Beach. «Oramai sono quasi cieco», confessa. Gli sfugge una lacrima: «Dopo il glaucoma, non riesco a leggere più niente. Questa è la cosa che mi fa più male, alla mia età. Non può capire quanto». Si sposta dalla sua camera in soggiorno, a fatica. Ha il fiatone. Non vuole svegliare suo figlio Lorenzo: «Dorme ancora». Lorenzo, nome italiano, come il suo quartiere, come il nipote (Leonardo), come mezza famiglia: il padre veniva da Chiari, Brescia, e morì sei mesi prima che Lawrence nascesse. Adesso, “Ferling” è fiero della sua italianità, clandestina in gioventù: il suo cognome per decenni gli fu dimezzato. La sua famiglia si vergognava di essere associata «a chi puzzava di peperoni e cipolla ».
Tutti i “beatniks”, dagli anni Cinquanta in poi, si incontravano da Lawrence. L’appuntamento era nella sua storica libreria ed editrice City Lights, angusto epicentro di una rivoluzione che ha sconvolto il mondo pubblicando Ginsberg (una performance del maledetto Urlo gli costò persino il carcere nel 1957), Burroughs, Kerouac, Kaufman, Corso, e poi Prévert, Chomsky, Bukowsky. Ma non Dylan. «Uno dei miei rimpianti più grandi è quello di non essere riuscito a pubblicare Bob. Quanto ho agognato e sperato di pubblicare in poesia almeno una versione del suo primo album omonimo! Che versi profondi, irraggiungibili! Ma allora, a metà degli anni Sessanta, era già troppo famoso ».
E cosa successe?
«Quando provai a chiedere i diritti, me ne andai con la coda tra le gambe. Quei soldi non li avrei mai avuti in vita. E comunque aveva già deciso di essere un uomo “song and dance”, canto e ballo».
Norman Mailer diceva che «se Dylan è un poeta, io sono un giocatore di basket».
«Che stupidaggini. Bob Dylan è un poeta, prima di ogni cosa. Lo è sempre stato. Ha scritto i migliori poemi surrealisti della nostra generazione. E, grazie alla musica, è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata, neanche con Ginsberg. L’Accademia di Svezia ha avuto grande coraggio per una scelta giusta e doverosa».
Il Nobel a Bob Dylan è anche il Nobel ai “beatniks”, a Lawrence Ferlinghetti e a un’intera generazione?
«In un certo senso sì. Anche se noi abbiamo cominciato negli anni Cinquanta, lui poco dopo. Ma è indubbio che le commistioni tra Beat Generation e quel revival folk aspirato dal primo Dylan si sovrapponessero molto rispetto alla stessa intellighenzia liberal di sinistra. Bob era uno di noi, basti vedere il flusso di coscienza dei suoi primi testi. E, dalla pace alle droghe, dalla psichedelia al buddismo, ha articolato in maniera irraggiungibile slogan e temi della nostra generazione. Soprattutto negli anni a venire, è stato il vero padre culturale della hippy generation».
Più di Ginsberg, ponte tra beat e hippy?
«Allen è stato una leggenda, ma non era niente al confronto di Bob Dylan. Piangeva mentre ascoltava le sue canzoni. Non a caso, presto lo capì e anche lui si portò un’armonica dall’India e cominciò a musicare i versi, persino i Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake».
Dylan era di origini ebraiche, ha cantato le storie degli ultimi come i neri e il jazz amato dalla Beat Generation e ha riportato la questione sociale in primo piano, come fece Steinbeck anni prima.
«Vero. Poi certo, la musica di Dylan è una storia impossibile da riassumere in poche righe: partì da Woody Guthrie e sappiamo dove è andata a finire. Anche il paragone con Steinbeck è azzeccato. Non a caso era uno degli idoli di Dylan, e anche di Jack Kerouac».
Qual è secondo lei la “canzone” più letteraria di Dylan?
«Non saprei. Solo “Masters of War” ne meriterebbe due di Nobel: per la Letteratura e per la Pace».
Che ne pensa degli intellettuali oggi? C’è chi dice che spesso sono troppo silenti di fronte ai mali del mondo.
«Silenti? Questi dormono proprio! Va bene che la sinistra sta perdendo pezzi giorno dopo giorno. Ma io vedo solo un grande sonno».
Perché, secondo lei?
«Oggi gli intellettuali hanno lo stomaco pieno. Hanno tutto, da subito, soprattutto i più giovani. Quando arrivai a San Francisco negli anni Cinquanta non avevo niente in tasca. E così molti miei colleghi. Avevamo una fame dentro, una tale rabbia, che non potevamo star zitti».
Lei invece, a 97 anni, dopo una carriera indimenticabile, cosa fa il giorno?
«Niente. Passo tutto il tempo a casa. Sono cieco».
Non va mai nella sua storica libreria?
«Ogni tanto. Ma oramai c’è gente straordinaria che ci lavora al posto mio, io non servo più».
Nel secolo scorso sfidavate la censura facendo arrivare dall’Europa i libri proibiti, Bob Dylan fece lo stesso con “Pasto Nudo” di Burroughs nel 1959. Oggi lo stesso meccanismo, nell’era di Amazon e della grande distribuzione, rischia di far chiudere parecchie librerie indipendenti, anche la vostra.
«Ma noi, City Lights, siamo sopravvissuti. E non moriremo mai. Perché la nostra non è solo una libreria. È una comunità. Quando la inaugurai, nel 1953, decisi di restare aperto fino a notte, sette giorni su sette. Le altre piccole librerie che chiudevano alle 5. Loro sono morte, noi no. Quei predatori di Amazon non ci avranno mai. Perché non riusciranno mai a essere come noi. Per esempio, la settimana prossima ci verrà a trovare Ralph Nader (ex candidato presidente in America, verde, ndr) ».
A proposito, lei da anarchico e ribelle antisistema, cosa voterà alle elezioni? Sceglierà un altro Nader, i cui voti da sinistra fecero perdere il democratico Gore a favore di George Bush?
«Stavolta no. Mi turerò il naso con due mani e voterò per Hillary Clinton. Trump è troppo pericoloso e rischieremmo davvero con una guerra mondiale con lui al comando. Ma, il giorno dopo la vittoria di Clinton, sperò che il movimento “Occupy” occupi la Casa Bianca stavolta, dopo Wall Street. Questo sistema politico è insostenibile, crea troppe disuguaglianze. Prima o poi, toccherà cambiarlo».
(Antonello Guerrera, La Repubblica 16 ottobre 2016)