Un’analisi di Paolo Rumiz su Repubblica. Percorrendo la dorsale appenninica non c’è area che non sia a rischio sismico tra vulcani silenti, piattaforme che si incontrano e l’incubo di un ipotetico “big one”.

Non so quanto ci vorrà perché noi si prenda seriamente atto di appartenere a un Paese sismico. Eppure basta un’occhiata. Soprattutto in Appennino, nei giorni chiari o nelle notti di luna, capita di sentirla respirare, la dea degli Abissi. Succede quando ti si apre a perdita d’occhio una processione inconfondibile di alture arcigne, inquiete e irregolari. Alture simili al mare quando il vento cambia direzione. E’ lì che si intuisce di appartenere a un Paese speciale, dove la lettura di superficie non basta, e si ha bisogno di sapere cosa c’è sotto. Anche senza conoscere la sequenza delle catastrofi, ci si accorge che lì si cela la chiave di tutto. Forse l’anima stessa dell’Italia. Qualcosa che parte dal profondo. Proviamo a sorvolarla, la schiena del Paese, dalle porte dell’Africa alla fine della Alpi.

C’è Pantelleria, che fuma e sfiata dalle fessure, relitto contorto di un cratere esploso come l’isola di Santorini, nel quale poco più di un secolo fa il mare ribollì e sputò luminarie come di fuochi artificiali, per vomitare un’escrescenza incendiaria vista fino in Tunisia. La Sicilia, segnata di cicatrici, con Persefone che ti dà il benvenuto dalle rovine ciclopiche di Selinunte, i templi greci squassati dai terremoti davanti a un mare blu cobalto. Il Belice, con i branchi di cani che, decenni dopo il disastro, popolano i paesi abbandonati dagli umani, forse per dirti che il peggio deve ancora venire, verso Ragusa, dove le meraviglie del barocco siciliano nascono dal sisma che nel 1693 – in una notte di pioggia, folgori e maremoti – fece cinquantamila morti nell’isola sud-orientale.

E da lì continui, di monte in monte, come sulla cresta di un drago, verso il cono fumante dell’Etna, con gli sterminati campi di lava coperti di pistacchio, con la vista che si apre sull’intero Sud dall’orlo della voragine di fuoco che per millenni ha indicato alle navi la rotta degli Stretti. Poi ancora, verso Taormina, storte rocce rossastre emerse da profondità spaventose, baricentro di un gorgo di forze plutoniche che, ruotando, spingono il Tirreno a espandersi, mentre lo Jonio si accartoccia e l’Adriatico spinge a Nordovest con tutta la Puglia e la Dalmazia e la pianura Padana verso la cordigliera alpina.

E avanti ancora, verso Messina, dove lo tsunami d’inizio Novecento fu tale da spingere le barche sui tetti delle case crollate. Calabria, regione di cui nessuno parla ma che resta la capitale sismica d’Italia, con un pedigree da far paura e un territorio segnato da una teoria infinita di abbandoni, crolli e smottamenti. Dall’alto dell’Aspromonte, un’altra pazzesca visione totale. Scilla, dove nel 1783 (anno segnati da cinque terremoti), crollò la montagna costiera per una fascia di oltre due chilometri. Al largo, le lingue infernali di Stromboli e Vulcano. Dall’altra parte, verso Nicastro e su tutta la costa grecanica, l’epopea dei paesi di montagna abbandonati e ricostruiti sul mare, con lo stesso nome. Visto da lassù, nemmeno il profondo del Tirreno dà segni di tregua, con le topografia sconosciuta dei grandi vulcani sottomarini, uno dei quali – il Marsilli – grande come due volte l’Etna, dà allarmanti segni di risveglio dopo millenni di letargo.

E si continua, senza tregua, come sulla gobba di un leviatano, fino alla Lucania, con il grandioso massiccio del Pollino, le cui fondamenta sembrano annunciare terremoti ma dove, inspiegabilmente, i sismografi tacciono, e nemmeno i sismologi sanno se tutto questo sia sintomo di una tregua duratura o di un possibile, catastrofico “big one” come quelli californiani. E ormai siamo al femore dello Stivale, con la cosiddetta Fossa Bradanica, linea sismica sulla quale la piattaforma eurasiatica si scontra nientemeno che con quella africana, la Grande Madre dei terremoti che galoppa verso Nordovest e ha generato il sisma in Irpinia degli anni Ottanta, poi quello dell’Aquila e ora quello tra Marche e Umbria.

Non è una mappa, è un percorso di guerra, lungo tutta la dorsale appenninica, fino in Liguria. C’è il Vesuvio, naturalmente, primo di una serie di crateri che, sfiorando Roma, arrivano fino in Toscana a fil di Tirreno. Ma il Vesuvio è niente rispetto al calderone dei Campi Flegrei, fumante porta dell’Averno per gli antichi, che 400 secoli fa esplose generando una nube che cambiò il clima mondiale. La bestia è ancora viva: l’ultimo dei vulcani flegrei si è aperto solo cinquecento anni fa, senza parlare della vicina Ischia, che negli ultimi tremila anni si è alzata di settecento metri a furia di terremoti, mentre l’isola di Procida si è staccata dalla terraferma per un impressionante abbassamento dei fondali davanti a Pozzuoli.

E non è finita, perché l’ultimo terremoto in Emilia ci ha appena ricordato che la pianura non significa silenzio sismico. Abbiamo imparato che le faglie vanno semplicemente in immersione sotto il mare ghiaioso della Padania e continuano imperterrite verso settentrione. Rimini, Ferrara, Reggio, Bologna, Brescia, in anni diversi, hanno ballato esattamente come Avellino, Norcia, l’Aquila e Amatrice. Per non parlare di ciò che abbiamo alle frontiere del Nordest, con la lezione tremenda del Friuli 1976, i sismi ripetuti in Carinzia e in Slovenia. Nella quale rimane a rischio la centrale atomica di Krsko, a soli 150 chilometri da Trieste. Davvero non serve che siano gli scienziati a dirci che l’Italia è un paese che balla. Ci basta un colpo d’occhio.

(Paolo Rumiz/Repubblica 31 ottobre 2016)

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