La luce, il silenzio e il vuoto. Edward Hopper al Vittoriano di Roma
Al Complesso del Vittoriano a Roma, Ala Brasini, sotto il patrocinio dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, in collaborazione con l’Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali – prodotta e organizzata da Arthemisia Group in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York, è stata realizzata una mostra, che resterà aperta fino al 12 febbraio 2017, in onore di Edward Hopper, il più popolare artista americano del XX secolo, il pittore regionalista tra i più rigorosi del suo tempo.
Nel corso degli anni ’20 si affermò in America una figurazione realista che assunse man mano i contorni di una identità artistica nazionale, in risposta al diffondersi imponente della nuova arte proveniente dall’Europa, che divenne un fatto ormai evidente con la prima grande rassegna di Arte Internazionale di New York del 1913, conosciuta come Armory Show, in cui furono esposte 1300 opere di 300 artisti europei e americani. Lo stesso Hopper partecipò a questa esibizione con il suo dipinto Sailing, che fu venduto per 250 dollari. Tra le correnti selezionate gli Impressionisti (fino a Cézanne), i Cubisti (Picasso, Braque, Léger, Picabia, Brancusi), i Fauves (Matisse) e gli Espressionisti del Blauer Reiter (Kandinskij e Kirchener). Attraverso questa mostra la cultura americana prese coscienza della rivoluzione estetica compiuta dalle nuove correnti dell’arte europea e rispose con una polemica antiavanguardista, che sfociò in un’arte indipendente dai modelli europei, caratterizzata da elementi assolutamente americani: scorci di cittadine e paesaggi, la vita nelle fattorie, le sconfinate praterie del Middle West, le storie quotidiane di provincia e la desolata solitudine dell’esperienza urbana. Finalmente, come affermò il critico Thomas Craven, stava cessando il servilismo americano nei confronti delle mode culturali straniere. Tra i paladini di questa tendenza, che alla fine degli anni ’20 fu definita con orgoglio American Wave, c’era Edward Hopper.
Hopper nacque nel luglio del 1882 a Nyack, una cittadina minuscola sul fiume Hudson, nel sud-est dello stato di New York. I suoi genitori provenivano dalla piccola borghesia angloamericana. Mostrò una precoce abilità per il disegno e dipinse il suo primo quadro a tredici anni. Nel 1900 iniziò a frequentare la New York School of Art diretta da William Merritt Chase, che lo incitò con Robert Henry, insegnante di pittura, fautore del realismo e personaggio di spicco della Ashcan School, a trasportare direttamente su tela la vita quotidiana nelle strade di New York, soprattutto nei quartieri poveri. Nel 1906 visitò Parigi e rimase affascinato dalla pittura impressionista e dai poeti simbolisti. L’amore per la Francia lo accompagnò per tutta la vita – conosceva perfettamente il francese e amava leggere i classici della letteratura in lingua originale – ma nel tempo abbandonò le nostalgie artistiche europee che lo avevano influenzato fino a quel momento, per ricercare uno stile che fosse autenticamente americano. Iniziò ad elaborare soggetti legati alla vita di tutti i giorni: immagini urbane di New York, le scogliere e le spiagge del New England, i paesaggi di Ogunquit e dell’isola di Monhegan nel Maine. Nel settembre del 1913, poco dopo la morte di suo padre, si trasferì in un edificio adiacente il Washington Square Park di New York, dove visse e lavorò fino alla fine dei suoi giorni. Il successo arrivò nel 1924, quando alcuni suoi acquerelli furono esposti a Gloucester nella galleria di Frank Rehn: fu acclamato sia dal pubblico che dalla critica e questo diede una svolta importante alla sua carriera, anche dal punto di vista economico, perché fino ad allora si era guadagnato da vivere come illustratore di riviste. Nello stesso anno sposò Josephine Nivison, conosciuta al corso di pittura di Robert Henry, alla New York School of Art, e che sarà l’unica modella per i personaggi femminili che avrebbe dipinto da allora in poi. Il successo ottenuto con la mostra alla Rehn Gallery contribuì a fare di Hopper il caposcuola dei realisti che dipingevano la “scena americana”. Nel 1925 un suo lavoro ad olio, Apartment House, fu acquistato dalla Pennsylvania Academy. Nel 1930, House by the Railroad, la casa in stile secondo impero americano che Alfred Hitchcock usò come modello in Psyco, venne donato dal collezionista Stephen C. Clark al MoMa di New York, entrando nella collezione permanente del Museo. Nel 1933 lo stesso MoMa gli dedicò una retrospettiva. Il Whitney Museum of American Art gli dedicò, nel 1950, una seconda retrospettiva e nel 1956 la rivista Time gli rese omaggio con una copertina. Nel 1934, dopo aver acquistato una casa per le vacanze estive a Truro, i paesaggi marini di Cape Cod, le case e i fari entrarono nei suoi dipinti.
Hopper morì a 85 anni, il 25 maggio 1967 nel suo studio nel centro di New York. Di lui si dice che fosse un uomo taciturno ed autoritario, con un pessimo carattere, addirittura misogino: proibì assolutamente a sua moglie di mettersi al volante della loro auto. Le donne nei dipinti di Hopper sono figure quasi metafisiche, cariche di significato simbolico, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perduto nel vuoto, in uno spazio oltre la tela, o immerse nella lettura. Spesso seminude, esposte, “toccate” dai soli raggi del sole, drammaticamente sole, in perenne attesa ed eterna inaccessibilità.
Nella sua pittura Hopper è riuscito a rendere esteticamente meravigliosa la solitudine dell’essere umano e ha fissato per sempre, in modo sapiente, ogni attimo colto, afferrato. Le immagini di Hopper hanno colori brillanti ma non trasmettono vitalità, gli spazi realistici comunicano inquietudine. Le scene sono spesso deserte, immerse nel silenzio. Rare le figure umane, avvolte da un silenzio immenso e angosciante, quasi percettibile, saturo di estraneità e incomunicabilità. Lo sguardo rivolto altrove, oltre i confini del dipinto.
La mostra al Complesso del Vittoriano illustra l’intero arco temporale della produzione di Edward Hopper: dagli acquerelli parigini agli scorci cittadini americani degli anni ’50 e ’60, un percorso attraverso tutte le tecniche di questo grande artista e superbo disegnatore, diventato un classico della pittura del Novecento.
(Nadia Loreti/com.unica 4 novembre 2016)