La lunga marcia della tribù bianca
Un’analisi del direttore della Stampa Maurizio Molinari sulle motivazioni che hanno spinto molti elettori a contribuire all’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca.
È la rivolta della tribù bianca d’America ad aver vinto le elezioni presidenziali che hanno portato Donald J. Trump alla Casa Bianca. Composta in gran parte da famiglie del ceto medio flagellato dagli effetti della globalizzazione, con le roccaforti negli Stati operai del Midwest e nella regione degli Appalachi, d’origine anglosassone ed angloceltica, diffidente nei confronti del governo federale e portatrice di un’idea di libertà basata sul diritto alla prosperità, la tribù bianca si è sentita aggredita durante gli otto anni di presidenza Obama. Ha vissuto l’orizzonte post-razziale, l’esaltazione dell’America multietnica, i successi delle battaglie sui diritti dei gay, le critiche all’operato della polizia e gli inchini del Presidente agli sceicchi come l’umiliazione dei discendenti dei pionieri che sfidarono indiani, banditi, animali feroci e intemperie per costruire la miriade di piccoli centri da cui è nata la nazione.
La tribù bianca è composta da padri che insegnano ai figli a «non parlare con gli amici di sesso, politica e denaro», da famiglie che diffidano dei nuovi venuti, da donne che votano come suggeriscono i mariti e da un oceano di senza lavoro che attribuiscono l’impoverimento ad un modello economico basato su tecnologie e libero commercio, favorevole solo alle élite che hanno trasferito la ricchezza da Wichita, Kansas, a Shanghai, Cina.
È una tribù per la quale i diritti economici contano più di quelli civili, che non si sconvolge per le volgarità di Trump e spera di «restaurare l’America delle origini» come spiega il sondaggio del «Public Religion Research Institute» parlando di una coalizione di uomini bianchi, senza laurea e operai. Hillary Clinton in uno degli errori della campagna li ha definiti «deplorables» (miserabili) ed è proprio questa maggioranza silenziosa che negli ultimi 11 mesi è andata a votare in massa – come mai aveva fatto – sconfiggendo in rapida successione le dinastie politiche che negli ultimi trent’anni hanno guidato Washington: i Bush e i Clinton.
Tutto questo è avvenuto a dispetto di una demografia che premia la somma delle minoranze, respingendo la prima donna che poteva diventare presidente, umiliando l’establishment bipartisan, le star di Hollywood, l’esercito dei sondaggisti e quasi la totalità dei media. Poiché l’America è una nazione rivoluzionaria, dove il populismo si affermò con l’elezione di Andrew Jackson nel 1829, è un fenomeno che merita rispetto anche da parte di chi non lo condivide. Tanto più che ci riguarda da vicino essendo assai simile al disagio del ceto medio che in Europa ha generato la Brexit britannica ed alimenta una galassia eterogenea di movimenti di protesta, dalla Francia alla Germania fino al nostro Paese.
Ciò che distingue i vincitori dell’Election Day è un’identità di gruppo che prevale su ogni altra forza di aggregazione politica. Per questo Trump li definisce «un movimento» – e non un partito – i repubblicani che oggi sommano il controllo di Casa Bianca e Congresso alla possibilità di ridisegnare la Corte Suprema, interprete dei valori della Costituzione. Come avviene dopo le vittorie rivoluzionarie, Trump arriva nella Washington domata praticamente da solo. Considerato un appestato da liberal e conservatori, allontanato da analisti e centri studi, avversato da minoranze, donne e gay, ha di fronte la temibile sfida di governare la nazione leader del mondo libero. In attesa di sapere come intende farlo, possono esserci pochi dubbi sul fatto che dovrà anzitutto rispondere a chi lo ha eletto, ovvero riconsegnare la prosperità al ceto disagiato. Se Trump vincerà questa sfida, potrà offrire all’Europa un inedito modello di crescita. In caso contrario, rischia di essere travolto dalla stessa rivolta che lo ha incoronato. Comunque vada, dovremo fare i conti con lui.
(Maurizio Molinari/La Stampa 9 novembre 2016)