Saranno i poveri a pagare il trionfo del populismo globale
Intervista a Bernard-Henri Lévy di Francesca Paci per La Stampa
L’invito a non sottovalutare il potenziale distruttivo di Trump, soprattutto ora che è stato eletto. La messa in guardia dall’«Internazionale populista». La speranza che i curdi vedano nascere il proprio Stato al termine della guerra contro il Califfato in cui hanno combattuto in prima linea.
Bernard-Henri Lévy ragiona con La Stampa del voto americano e delle ombre che proietta sul mondo. Giornalista, scrittore, filosofo, animatore del dibattito politico come della mondanità francese ma soprattutto epigono dell’intellettuale «engagé» nell’era del disimpegno e della rivolta contro le élite, BHL traccia una mappa in cui l’occidente catalizza tensioni, frustrazioni, rese dei conti con la Storia.
Cominciamo da Trump: cosa dobbiamo aspettarci?
«Il peggio. Ossia che faccia quanto può per applicare il suo programma. La gente dice: “Ora che è stato eletto si calmerà, aggiungerà l’acqua al vino, si farà digerire dal sistema”. Io non ci credo. Credo che cercherà, per quanto possibile, di fare Trump e Putin hanno la stessa visione del mondo, lo stesso populismo, lo stesso sprezzo delle élite e dei valori democratici quel che ha detto».
Che valori esprime questo voto?
«Il disprezzo della democrazia. La legge della tele-realtà applicata alla politica. E, come se non bastasse, una sorta di darwinismo sociale di cui i più deboli pagheranno il prezzo. Ho letto che ad eleggere Trump sono stati i declassati, i marginalizzati dalla globalizzazione, gli umiliati. Intanto non è vero, perché la maggior parte dei neri – la minoranza per eccellenza da cui provengono questi esclusi – ha comunque votato per Clinton. Ma, soprattutto, se Trump manterrà le sue promesse in materia fiscale o di protezione sociale a soffrirne saranno gli americani più poveri».
Non è un voto di protesta contro le élite?
«No. È un voto contro la Repubblica. Contro l’uguaglianza e il rispetto delle minoranze. Contro Tocqueville e la sua definizione di America. Assistiamo a un autentico tentativo di suicidio dentro quella grande democrazia che è la democrazia americana».
Qual è l’agenda di Trump per l’Europa?
«Nella migliore delle ipotesi se ne frega dell’Europa. Nella peggiore crede che sia il momento di rinegoziare i termini della Nato. In entrambi i casi la sua elezione è una pessima notizia e in entrambi i casi sotto la sua presidenza l’America volterà le spalle alle sue radici europee».
La Cancelliera Merkel si è congratulata con Trump ma gli ha ricordato il rispetto dei diritti umani. È l’approccio giusto?
«Merkel ha espresso due paure. La prima è che gli Stati Uniti cadano nell’isolazionismo e rinuncino a difendere la democrazia nel resto del mondo. La seconda è che nella stessa America regredisca rispetto alle battaglie storiche per i diritti civili che da cinquant’anni le fanno onore. La reazione di Merkel è quella di una amica dell’America che vede l’America spararsi su un piede».
L’Europa è unita su questo o si dividerà ancora?
«C’è un nuovo tipo di regime in Europa, i “démocratures”, una miscela di democrazia e dittatura. E il caso del populismo autoritario di Victor Orban in Ungheria. Quel tipo di gente, ovviamente, si rallegra di Trump. Proprio come Marine Le Pen, in Francia, è stata la prima a felicitarsi. C’è una nuova Internazionale, una specie d’Internazionale rosso-nera o nera-rossa, che già vede in Trump il suo araldo. Tra chi ha salutato l’avvento di Trump c’è l’estrema destra ma c’è anche tutta quella parte dell’estrema sinistra, seguace di gente come Slavoj Zizek, convinta che il vero pericolo fosse Hillary Clinton».
Pensa che ci si debba preoccupare di fronte alla lista di chi applaude Trump? Erdogan, al-Sisi, Orban, Le Pen, Grillo in Italia.
«Sì. È “l’Internazionale populista”. La vittoria di Trump mette loro le ali. È il loro “Yes we can”. Se Trump ha potuto, la Le Pen potrà. Se Trump è stato eletto, nulla impedirà a un cattivo clown come Beppe Grillo di esserlo a sua volta. Nel mondo occidentale si è messa in marcia questa grande regressione anti democratica».
Ma Trump è stato eletto democraticamente…
«La democrazia non si limita al voto. Riguarda i valori, il tipo di società, un rapporto col mondo. E possibile che stiamo assistendo alla autoliquidazione della democrazia per mezzo della democrazia. Poi, in realtà, le cose sono più complicate. L’America è un grande paese e credo che alla fine trionferà sulla volgarità e la brutalità. L’Italia ha resistito a Berlusconi, l’America resisterà a Trump».
E Putin? Che politica adotterà Trump?
«L’ha già annunciata. Gli mangerà nella mano. Romperà con la politica di relativa fermezza dell’amministrazione Obama. Sarà così per ragioni ideologiche e personali: hanno la stessa visione del mondo, lo stesso populismo, lo stesso sprezzo delle élite e dei valori democratici ma anche la stessa volgarità, la stessa appartenenza al club dei presunti testosteronici. Senza menzionare che il Cremlino è stato indirettamente – con i suoi hackers focalizzati sulle mail della Clinton – uno degli architetti della vittoria di Trump. E senza menzionare i legami oscuri del passato businessman Trump con gli amici di Putin…»
Si spieghi meglio.
«Nel 2004, quando Trump era sull’orlo del collasso finanziario, le banche Usa smisero di finanziarlo. Alcuni oligarchi russi l’hanno allora sostenuto. Sono loro che hanno sottoscritto i suoi nuovi programmi immobiliari, loro che in qualche modo l’hanno salvato».
Che implicazioni avrà questa situazione sul Medioriente?
«Il dossier più scottante è la Siria. Se Trump si allinea a Putin, si andrà all’abbandono della Siria. Si andrà a riconoscere ad Assad il ruolo di grande sterilizzatore dei germi della democrazia nella regione. E si andrà a una concezione della lotta contro Isis che presuppone una politica di terra bruciata. Con tutto ciò che implica in termini di aumento dei rifugiati. Non dimentichiamo che la maggioranza dei famosi migranti che arrivano in Europa è gente che fugge dal faccia a faccia tra Assad e Isis. Tutto quanto alimenta questo faccia a faccia e mantiene Assad al potere non può che aumentare il numero dei rifugiati».
E Israele?
«Trump l’ha già detto. Intende domandare a Israele il rimborso di una parte degli aiuti concessi dalle precedenti amministrazioni. In più, ricordate la volgarità delle sue allusioni alle grandi organizzazioni sioniste americane durante la campagna elettorale. Roba tipo: so che non mi voterete perché non voglio il vostro sporco denaro…».
È appena rientrato dall’Iraq. Anche lì, nel cuore della guerra contro lo Stato Islamico, questo voto si farà sentire?
«Probabilmente sì. Se non altro perché anche lì Trump sarà tentato di allinearsi a Putin e ai suoi metodi. Prendiamo Mosul. La coalizione internazionale conduce per ora una guerra il più pulita possibile, evitando di colpire i civili e limitando le perdite. Con Trump si rischia un altro tipo di guerra, attacchi massicci e città spianate, il metodo Grozny o Aleppo applicato a Mosul».
E i curdi? Coloro che lottano sul terreno contro il Califfato, come ha raccontato nel suo film “Peshmerga”, otterranno alla fine il loro Stato?
«Lo spero. Sarebbe il minimo dopo tanti sacrifici e tanto sangue versato. Inoltre questa battaglia di Mosul non è iniziata un mese fa ma un anno fa o forse due, quando i curdi, e solo loro, hanno affrontato le prime linee del Califfato. Oggi ci concentriamo sugli ultimi atti dimenticando che il grosso del lavoro l’hanno fatto i peshmerga quando non c’era la coalizione internazionale e men che mai una brigata irachena. Ma anche qui c’è da temere il peggio. Perché nel club dei dopati di testosterone c’è un terzo uomo, Erdogan. Anche lui affascina Trump. La loro intesa sara perfetta. E lui è il nemico giurato dei curdi. Non vedo Trump imporre a Erdogan uno Stato per i curdi…».
Trump ha parlato degli sforzi di Assad contro Isis ma non ha mai menzionato i curdi. Un brutto segno?
«Credo di sì. Inoltre questa storia è una balla. Innanzitutto perché i curdi sono in prima linea contro Isis. E poi perché, prima di combatterlo, Assad ha inventato Isis. Non bisogna mai dimenticare il doppio gioco turco. Così come il doppio gioco saudita o qatarino. Non ci sono alleati affidabili nella lotta allo jihadismo. Si può fare un pezzo di strada con loro, ma restando vigili e prudenti. Un’ultima cosa sulla Turchia. Ormai non ci si chiede più se debba o meno entrare in Europa. La questione è più radicale: ha ancora diritto al suo posto nella Nato? Può, senza chiarire le sue posizioni, restare nell’alleanza militare che garantisce la sicurezza dell’Europa? Indovinate la mia risposta».
Francesca Paci/La Stampa, 13 novembre 2016