Il mea culpa degli economisti sulla globalizzazione
Un economista dell’Università di Harvard spiega perché un eccesso di globalizzazione contribuisce ad acuire le divisioni all’interno della società. La lezione del voto a Trump.
CAMBRIDGE – Gli economisti sono in parte responsabili della scioccante vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane? Anche se probabilmente non sarebbero riusciti a fermare la sua corsa, forse il loro impatto sul dibattito pubblico sarebbe stato più incisivo se si fossero dimostrati più fedeli ai precetti della loro disciplina, invece di schierarsi dalla parte dei sostenitori della globalizzazione.
Quando, quasi due decenni fa, il mio libro Has Globalization Gone Too Far? stava per andare in stampa, mi rivolsi a un noto economista per chiedergli se voleva scrivere un contributo per la quarta di copertina. Nel libro sostenevo che, in assenza di una risposta governativa più concertata, un eccesso di globalizzazione era destinato ad acuire le divisioni all’interno della società, esacerbare i problemi distributivi e minare i patti sociali interni – tutti concetti che da allora sembrano andare per la maggiore.
L’economista obiettò che, pur non dissentendo su nessuna delle mie analisi, temeva che il mio libro avrebbe fornito “munizioni ai barbari”. I protezionisti avrebbero fatto leva sulle argomentazioni riguardanti gli aspetti negativi della globalizzazione per giustificare i loro scopi ristretti ed egoistici.
Ancora oggi, mi capita di ricevere questa reazione da colleghi economisti che, alzando timidamente la mano, mi domandano: “Ma non temi che le tue ragioni possano essere manipolate e sfruttate proprio dai demagoghi e populisti che condanni?
Esiste sempre il rischio, nel dibattito pubblico, che coloro che la vedono diversamente da noi si approprino delle nostre idee. Non ho mai capito, però, perché molti economisti pensano che questo implichi stravolgere la nostra posizione sul commercio in una direzione specifica. Sembra che alla base vi sia l’implicito presupposto che i cattivi stiano solo da una parte, e che quelli che contestano le regole o gli accordi commerciali emanati dall’Organizzazione mondiale del commercio siano odiosi protezionisti, mentre coloro che li appoggiano stiano dalla parte dei buoni.
In verità, molti fan accaniti del commercio sono motivati dagli stessi fini gretti ed egoistici dei suoi detrattori. Le industrie farmaceutiche che invocano norme più severe sui brevetti, le banche che premono per un accesso illimitato ai mercati esteri, o le multinazionali alla ricerca di corti di arbitrato speciali non hanno più rispetto per l’interesse generale dei protezionisti stessi. Perciò, quando gli economisti mascherano le proprie ragioni, non fanno che favorire un gruppo di barbari rispetto a un altro.
Per molto tempo l’impegno pubblico degli economisti si è attenuto alla tacita regola di sostenere il commercio senza soffermarsi troppo sulle scritte in caratteri piccoli. Ciò ha dato adito a una situazione bizzarra. I modelli standard di commercio con cui gli economisti generalmente lavorano producono effetti distributivi notevoli: le perdite in termini di reddito subite da alcuni gruppi di produttori o categorie di lavoratori sono il rovescio della medaglia dei “profitti derivanti dal commercio”. E gli economisti sanno da tempo che i fallimenti del mercato – mercati del lavoro poco funzionali, imperfezioni sul mercato del credito, esternalità della conoscenza o ambientali, e monopoli – possono interferire con l’ottenimento di tali profitti.
Essi sanno, inoltre, che i vantaggi economici degli accordi commerciali che superano i confini nazionali per influenzare i regolamenti interni – come l’inasprimento delle norme sui brevetti o l’armonizzazione dei requisiti di sicurezza e tutela della salute – sono fondamentalmente ambigui.
Malgrado ciò, gli economisti sono sempre pronti a sciorinare a pappagallo le meraviglie del vantaggio comparato e del libero commercio ogniqualvolta vi siano degli accordi commerciali di mezzo. Hanno continuato a minimizzare le preoccupazioni distributive, anche se è ormai chiaro che l’impatto distributivo, ad esempio, dell’Accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA) sull’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio è stato notevole per le comunità statunitensi più direttamente colpite. Inoltre, hanno esagerato l’entità dei guadagni aggregati derivanti dagli accordi commerciali, anche se questi si sono fortemente ridimensionati a partire dagli anni novanta, o persino prima. Infine, hanno avallato la propaganda che definisce gli accordi commerciali odierni come “accordi di libero mercato”, pur se Adam Smith e David Ricardo si rivolterebbero nella tomba leggendo il testo del Partenariato Trans-pacifico (TPP).
Questa riluttanza a essere trasparenti sul tema ha fatto perdere agli economisti qualunque credibilità agli occhi dell’opinione pubblica. E, ancor peggio, ha rafforzato le tesi dei loro oppositori. La loro incapacità di fornire un quadro esaustivo sul commercio, con tutte le distinzioni e gli avvertimenti del caso, ha reso più facile colpevolizzarlo, spesso ingiustamente e con effetti nefasti di ogni sorta.
Ad esempio, per quanto possa aver contribuito ad aumentare la disuguaglianza, il commercio è solo uno dei fattori che concorrono al trend più ampio, e con ogni probabilità uno tra quelli meno incisivi, se paragonato alla tecnologia. Se gli economisti fossero stati più franchi circa gli svantaggi del commercio, la loro onestà nel ruolo di broker li avrebbe resi più credibili.
Similmente, il dibattito pubblico sul fenomeno del dumping sociale sarebbe stato più fondato se gli economisti fossero stati disposti a riconoscere che le importazioni da paesi che non tutelano i diritti dei lavoratori sollevano gravi interrogativi sulla giustizia distributiva. Ciò avrebbe reso possibile operare una distinzione tra casi in cui i salari bassi nei paesi poveri riflettono una bassa produttività e casi di autentiche violazioni dei diritti. E il grosso del commercio che non desta preoccupazioni in tal senso avrebbe potuto essere meglio protetto dall’accusa di ingiustizia.
Allo stesso modo, se gli economisti avessero ascoltato i critici che li mettevano in guardia sulla manipolazione valutaria, gli squilibri commerciali e la perdita di posti di lavoro, invece di conformarsi a modelli che scartavano questi problemi in modo irresponsabile, avrebbero potuto trovarsi in una posizione migliore per replicare a proclami esagerati sull’impatto negativo degli accordi commerciali sull’occupazione.
In sintesi, se avessero rivelato i moniti, le incertezze e lo scetticismo che albergavano dietro le quinte, gli economisti avrebbero protetto meglio l’economia mondiale. Purtroppo, lo zelo prodigato nel proteggere il commercio dai suoi nemici gli si è ritorto contro. Se i demagoghi che fanno dichiarazioni assurde sull’argomento oggi vengono ascoltati, e negli Usa e altrove vanno addirittura al potere, almeno una parte della colpa va attribuita ai sostenitori solo teorici del commercio.
Dani Rodrik*/project-syndicate, 15 novembre 2016
*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.