“L’oblato”, il lato monastico del maledetto Huysmans
Pubblicato in Italia l’ultimo romanzo del padre del decadentismo: racconto autobiografico e liturgico
Oblato, che bella parola. Lo penso da quando scoprii che «oblativo» è l’aggettivo che definisce chi ama senza contropartite. Il contrario di captativo, termine psicanalitico che definisce chi predilige ricevere senza dare. Ci voleva proprio, in questi tempi più captativi (per non dire cattivi) che oblativi (per non dire buoni), la traduzione italiana dell’ultimo romanzo di Joris-Karl Huysmans (1848-1907), appunto L’oblato (D’Ettoris, pagg. 400, euro 21,90), che fu pubblicato nel 1903: per rimettere in circolazione la bella parola almeno fra gli amanti di squisitezze letterarie. Delle varie accezioni possibili, lo scrittore francese ne usa una di tipo cattolico: il protagonista è un oblato benedettino, ossia una persona che si offre a Dio gravitando intorno a un monastero senza però essere monaco, seguendo la Regola di San Benedetto tuttavia riservandosi la possibilità di avere un lavoro normale, una casa, una famiglia, dei figli. Oblato benedettino fu anche l’autore, dopo la celebre conversione del 1892, e questo fa intuire quanto il romanzo sia autobiografico: moltissimo. È facile confondere l’oblato Durtal con l’oblato Huysmans così come leggendo Controcorrente, il capolavoro del 1884, è difficile non identificare il decadente Des Eissentes (prototipo di Dorian Gray e Andrea Sperelli) col decadente Huysmans di quegli anni. E va bene così, siamo nei dintorni di quella che oggi si chiama autofiction (sebbene avvicinare Huysmans a Carrère significhi fare uno sfregio al primo) e non rischiamo di sprecare il nostro tempo prezioso con troppe corbellerie.
L’oblato oltre al piacere della letteratura offre la conoscenza della storia, della storia di Francia. Ho scoperto che non era così bella la Belle Époque, se i politici massoni della Terza Repubblica, anziché spassarsela con le ballerine del Moulin Rouge si divertivano diabolicamente a molestare, perseguitare, sopprimere le scuole cattoliche e i monasteri cattolici. Nel 1901 l’oblato Huysmans e i monaci benedettini vennero espulsi da Ligugé, nel capitolo 15 l’oblato Durtal e i monaci benedettini vengono espulsi da Val des Saints: «Suonavano le quattro ed era orribile. Non sentiva più nulla dopo l’ultimo colpo. Le campane dell’abbazia non volavano più dopo la partenza del noviziato e i cento colpi che annunciavano la discesa in chiesa, tacevano; anche l’Angelus restava muto; la morte era nell’aria».
Altro che douce France, altro che liberté-egalité-fraternité: L’oblato svela il lato oscuro del Paese dei Lumi. Anche Huysmans era un dark, ci mancherebbe, con la differenza che non imponeva le sue scelte al prossimo e viveva la sua fede sulla pagina e nella preghiera. Continuava a darkeggiare anche dopo la conversione, anche in quei primissimi anni del Novecento, ultimissimi della sua vita, e la prefazione fa giustamente notare una certa continuità col maledettismo di Controcorrente. Il protagonista è «tormentato da una sregolata bramosia di chiostro», confessa di essersi «inoculato il saporoso veleno della liturgia» e si dichiara «morfinomane dell’Ufficio», come se il breviario potesse dare assuefazione. Durtal sembra dare ragione alla mia amica di Assisi che definisce «drogati di Dio» i pellegrini che sciamano sotto le sue finestre, io però credo che, dipendenza per dipendenza, quella da crack sia peggio, e che se Amy Winehouse e Whitney Houston avessero abusato dei sacramenti, anziché di certe sostanze, sarebbero ancora qui a cantare. Il «torbido cristianesimo», categoria inventata da Mario Praz per classificare gli autori cattolici che fra Otto e Novecento oscillavano fra estetismo e sensualismo, non ha mai ammazzato nessuno. Semmai ha insegnato a gustare la vita nella sua interezza, nel suo inesorabile intreccio di materiale e spirituale. L’oblato è oblativo ma non masochista e dunque mangia, beve e perfino fuma, come don Giussani e Young Pope. Da pagina 289 il libro si trasforma in una guida dei migliori vini francesi: «Questo vino è della riserva della Commaraine e viene prodotto dai vigneti di Pommard; i nostri padri lo hanno definito leale, vermiglio e di buona qualità». E ancora: «La riserva Vougeot e quella Chambertin, onore della nostra Borgogna, sono state coltivate una dai monaci cistercensi, l’altra dai monaci di Cluny; Citeaux ha posseduto vigneti dalle parti di Corton e Romané e…».
Così per varie pagine che hanno rafforzato la mia antica scelta di campo a favore delle bottiglie borgognotte, come si è visto di origine monastica, contro le bottiglie bordolesi, di origine prettamente commerciale e con un retrogusto di protestantesimo, visto il ruolo degli ugonotti a Bordeaux. Al contempo mi sono rattristato per il paragone col pressoché nullo prestigio letterario del vino italiano di quegli anni: corrispettivo di Huysmans è il semiastemio ed esterofilo D’Annunzio che, anziché il Montepulciano e il Cerasuolo della sua terra abruzzese, pubblicizzava il Cordon Rouge. Siccome nell’Occidente che non crede più in sé stesso il veganesimo orientale avanza, spesso dichiarandosi buono e religioso, devo far notare che nel romanzo i buoni e religiosi monaci, venerdì e quaresima a parte, di carne ne mangiano eccome: «Il macellaio uccide un giorno un manzo, o meglio per essere più esatti, una vacca, un altro giorno un montone, un altro giorno ancora un vitello. La parte più abbondante di questi animali è naturalmente riservata al monastero. Scherzando ma non troppo, l’oblato espone idee sugli influssi spirituali del cibo che farebbero sobbalzare un buddista e indignare Giulia Innocenzi: «Il roastbeef addolcisce l’anima». Non che Durtal si sia spinto a Val des Saints per riempirsi il ventre.
Il suo interesse principale è la liturgia, alla quale sono dedicate molte pagine: pertanto qualcuno ha parlato, senza esagerare troppo, di «romanzo liturgico». Io non vorrei insistere su questo aspetto perché spero che L’oblato trovi qualche lettore e so per esperienza personale (penso alle vendite del mio Guida alle messe) che il tema liturgico appassiona non più di quattro gatti. In tempi di Papa Francesco, poi… Però sarebbe disonesto nascondere la malattia del protagonista per salmi e vespri, paramenti e organi, incensi e Te Deum. «Bisogna avere il gusto della liturgia» dice un monaco, padre Felletin, elencando i requisiti di chi vuole diventare oblato. Sarebbe meglio che quel gusto lo avesse anche chi vuole diventare lettore di questo libro, sconsigliatissimo ai beati frequentatori di messe con tamburelli, applausi, prediche-show. L’oblato è romanzo antimoderno, ovvio, e ancor più romanzo elitario: «Noi cerchiamo la qualità e non la quantità; ci serve gente colta, letterati e artisti, persone che non siano esclusivamente dei devoti» dice padre Felletin. Sembra l’identikit dei lettori di Huysmans.
Camillo Langone, IL GIORNALE, 22 novembre 2016