Un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2003 dal dissidente cubano Carlos Franqui (vecchio collaboratore del lider maximo) in cui si cercano di capire i motivi della fascinazione della sinistra italiana per il mito di Fidel Castro.

«In Italia la sinistra ha sempre girato la testa dall’altra parte. Più con il silenzio che con l’appoggio aperto. In nome dell’anti-americanismo hanno sempre perdonato tutto a Fidel Castro. Gli intellettuali e i politici della sinistra hanno sempre saputo bene qual era la situazione dei diritti umani a Cuba ma quando con altri dissidenti andavamo a chiedere una firma di condanna a Fidel Castro ci sbattevano la porta in faccia. Mi ricordo il 1971. Fidel Castro aveva fatto arrestare un poeta, Heberto Padilla, e Luigi Nono scrisse una lettera di protesta che l’Unità si rifiutò di pubblicare».

Corre sul filo dei ricordi Carlos Franqui, il “nonno” dei dissidenti cubani che oggi vive a Portorico. Ottantaquattro anni, con Fidel sulla Sierra Maestra durante la rivoluzione, direttore di Revoluciòn, poeta, scrittore, saggista, fuggito da Cuba nel 1968 quando criticare la rivoluzione voleva dire, anche in Europa, accettare l’ostracismo, l’insulto personale, l’accusa, tremenda in epoca di Guerra Fredda per un uomo di sinistra, di “tradimento”.

Perché lasciò l’isola?

«Perché non potevo essere libero, non potevo scrivere, pubblicare quello che volevo. A Cuba se non sei d’accordo con Fidel Castro sei un uomo morto. Non puoi lavorare, muori di fame. Prima venni destituito da direttore di Revoluciòn, poi mi cacciarono da direttore del Museo d’Arte moderna».

Perché venne destituito da direttore del giornale?

«Pubblicai il dispaccio dell’agenzia France Press che dava la notizia della decisione di Kruscev di ritirare le rampe dei missili da Cuba. Castro non lo sapeva, il presidente sovietico non lo aveva avvisato. Ma non voleva neppure che lo sapessero i cubani. Così il giorno dopo mi processarono, solo perché avevo scritto la verità. Vissi una situazione kafkiana nella quale il colpevole della decisione di Kruscev finivo per essere io».

In quegli anni lei venne in Italia…

«Cercai di raccontare quello che succedeva a Cuba, di mettere in guardia la sinistra. Di spiegare il settarismo con cui si governava il partito comunista cubano. I processi ai dissidenti, le fucilazioni. Sono trentacinque anni che combatto per far conoscere la mostruosità del sistema castrista. Ma in Italia non mi ascoltava nessuno. All’inizio ero un poveraccio che aveva perso il lavoro al quale bisognava pagare il pranzo. Così, tanto per dimostrare un po’ di umana solidarietà. Poi diventavo una zanzara, un fastidio da scacciare».

Ma venne invitato anche alla Biennale di Venezia?

«Sì, c’era Ripa di Meana, fu un momento molto importante. Ma in quegli anni era molto difficile spiegare, nessuno in Italia voleva ascoltare critiche a Cuba. Ci fu anche un processo a Trento con Gianni Minà».

Perché?

«Lo querelai per tutte le bugie che Fidel Castro diceva su di me nel suo libro-intervista».

Come finì?

«In un pareggio. Minà mi chiese scusa e io ritirai la querela».

Una parte della sinistra italiana ha sempre difeso il regime cubano sostenendo che tutti i problemi, le difficoltà, la fame, la prostituzione, la mancanza di medicine dipendevano dall’embargo degli Stati Uniti?

«È una foglia di fico. L’embargo è applicato solo dagli Stati Uniti, dal resto del mondo no. Domandatevi questo: perché Castro non compra le medicine in Messico? La verità è che il suo sistema è un fallimento totale, che la sua politica economica ha distrutto le risorse dell’isola. Cuba non è povera per l’embargo americano, è povera perché è governata da un dittatore che proibisce l’iniziativa privata».

Si è perdonato molto a Castro anche per il Che Guevara…

«Quando Guevara lasciò Cuba per andare prima in Angola e poi in Bolivia lo fece perché aveva rotto con Fidel Castro. Era un nemico anche lui. L’obiettivo di Castro era liberarsi del “Che”, infatti non fece assolutamente nulla per aiutarlo, anzi forse fece qualcosa per ostacolarlo».

Per quali ragioni è stato così difficile convincere anche grandi dirigenti della sinistra italiana?

«Io credo per l’antiamericanismo, per il mito del Terzo mondo e per quello della rivoluzione armata, della conquista del potere con le armi. L’innamoramento per il regime cubano era speculare all’odio per gli Stati Uniti, per il paese del capitalismo. Nessuno aveva interesse a cercare la verità, serviva solo la propaganda».

Perché il leader cubano ha scelto la via della repressione, dopo la visita del Papa sembrava che il regime avrebbe preferito la tolleranza?

«Castro è abituato a governare le crisi con il terrore, lo ha sempre fatto. In questo momento la crisi è molto profonda a Cuba. Dopo l’11 settembre è crollato il turismo che è una delle principali fonti di ingresso per lo Stato. La crisi sta mettendo in difficoltà la sopravvivenza del regime, quando ha fame la gente protesta e se non ottiene nulla: si rivolta. Il terrore serve a scongiurare il rischio di una rivolta».

Castro accusa i dissidenti di essere “agenti degli Stati Uniti”, di ricevere finanziamenti da Washington.

«Mi viene da ridere. Io ho pubblicato tutti i documenti nei quali si dimostra come noi quando combattemmo per fare la rivoluzione fummo aiutati dagli Stati Uniti. Allora le relazioni tra Fidel e gli Stati Uniti erano ottime».

E dopo?

«La sinistra italiana non ha mai accettato un fatto molto semplice: Castro non è mai stato marxista, né comunista. Ad un certo punto ha capito che poteva utilizzare l’appoggio dell’Urss per consolidare il suo potere. L’Urss, per l’importanza strategica che aveva un’isola come Cuba a novanta miglia dagli Stati Uniti, ha letteralmente mantenuto l’isola per trent’anni. Da Mosca arrivava tutto. Le macchine, i viveri, le medicine. I cubani potevano permettersi di non fare assolutamente nulla, c’erano i russi che ci mantenevano. E quando questo sistema è saltato, Castro ha inventato l’apartheid, l’isola del turismo sessuale. Non gliene è mai importato nulla del socialismo, il suo problema è stato sempre e solo il suo potere».

In che consiste il sistema che lei chiama apartheid?

«Ci sono spiagge proibite ai cubani, la più famosa è anche la più bella dell’isola: Varadero. I cubani non possono entrare negli alberghi e nemmeno nei ristoranti per i turisti. Poi c’è un sistema che ritengo mostruoso nell’industria. È ovvio, per esempio, che non esiste il sindacato, sarebbe controrivoluzionario protestare contro il datore di lavoro. Le aziende europee che operano nell’isola possono farlo solo associandosi con il regime, al cinquanta per cento. Il lavoro degli operai viene pagato in dollari allo Stato cubano che a sua volta paga il salario ma in pesos trattenendo la differenza. Per alcune aziende è una pacchia: non ci sono proteste, nessuno sciopera. Chi alza la testa perde il lavoro e ciao. Non è un operaio che rivendica i suoi diritti, è un controrivoluzionario».

E oggi cosa dovrebbero fare l’Italia e l’Europa?

«Ci vogliono subito misure concrete, i governi europei non devono concedere crediti al regime e devono proibire alla aziende di avere rapporti di collaborazione con Cuba almeno fino a quando non vengono liberati i prigionieri politici».

(Intervista a cura di Omero Ciai/Repubblica)

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