Nel Medio Oriente in guerra la grande sconfitta è Riad
Un’intervista della Stampa all’accademico francese, politologo ed esperto del mondo arabo Gilles Kepel
C’erano una volta le piazze arabe, croce e delizia dei satrapi locali. Polverizzata dal disfacimento del mondo sunnita quell’icona non funziona più, ci dice Gilles Kepel: né come spettro d’unità trans-nazionale agitato contro l’Occidente né come il suo opposto rivoluzionario manifestatosi nel 2011. Il celebre islamista ha appena pubblicato in Francia il suo nuovo saggio La fracture (Gallimard) e ragiona dei cambiamenti in corso nella sponda Sud del Mediterraneo, un terremoto dai cui effetti non è e non resterà immune l’Europa.
Divamperà infine l’evocatissima guerra tra sunniti e sciiti?
«Quanto accaduto negli ultimi anni in Medio Oriente ha portato alla ribalta il confronto tra sunniti e sciiti a un livello tale da superare quello tradizionale tra Israele e mondo arabo musulmano. Nel mio recente viaggio in Israele sono stato al confine con la Siria, 40 km rimasti finora stabili. Oggi lì esistono tre frontiere: a Nord ci sono l’esercito di Damasco e Hezbollah, al centro c’è Al Nusra, ossia Al Qaeda, al Sud c’è Daesh. Sono tutti in guerra tra loro e nessuno attacca Israele, che di tanto in tanto apre le porte ai feriti anche per avere informazioni».
Il vero perdente di questa partita è il mondo arabo sunnita?
«Finora la geopolitica sciita nella regione si era mossa sull’asse Teheran, Baghdad, il Barhein e poi Damasco, con un po’ di appoggio dei russi che non avevano altra scelta. Dall’altra parte c’era il blocco sunnita, ossia gli arabi più la Turchia dei Fratelli Musulmani. Dopo le distruzioni arabe, come chiamo io le rivolte del 2011, questo secondo blocco si è andato sfaldando sotto la spinta dei Fratelli Musulmani, allora vincenti in Turchia, in Qatar, nell’Egitto di Morsi, in Tunisia e in parte nella Libia di Belhaj. Quando i Fratelli sono crollati in Egitto e sono retrocessi in Tunisia, dove, come nel Marocco di Benkirane, hanno capito di non poter fare a meno della borghesia laica e francesizzata, il Nord Africa ha preso una strada diversa da quella mediorientale: da una parte marocchini e i tunisini e dall’altra turchi, qatarini e gli esuli egiziani che in Europa, soprattutto in Francia, stanno portando avanti una forte offensiva culturale sui giovani. In mezzo c’è il riposizionamento dell’Egitto, il più grande paese sunnita che, sia pur per l’odio del presidente al Sisi contro Daesh e la Fratellanza, sta virando verso l’Iran: la conferma si è avuta recentemente a Baku, dove a un grande convegno dell’islam post sovietico e sciita ha partecipato l’università cairota di al Ahzar».
L’Iran cavalca gli eventi o ha un suo piano espansionista?
«I neo-con americani, ossessionati dalla responsabilità saudita nell’11 settembre, hanno sostenuto gli sciiti in Iraq spostando l’equilibrio nel campo sciita. È stato il primo colpo alla potenza sunnita e il dono involontario dei neo-con alla loro nemesi iraniana. Di fatto la sconfitta della rivolta sunnita in Iraq non è dipesa tanto dall’intervento militare della coalizione quanto dalla pressione delle masse sciite appoggiate da Hezbollah che ora, dopo aver lasciato ai sunniti le zone senza petrolio, controllano, insieme ai curdi, l’Iraq utile. È lì che inizia l’espansione iraniana. In Bahrein la popolazione sciita si è «iranizzata» dopo le rivolte del 2011 represse con l’aiuto dell’esercito di Riad (che attraversò il ponte tra i due Stati il lunedì per evitare l’imbottigliamento dei tank nel traffico dei sauditi diretti ai bordelli di Manama). La pressione dell’Iran sulla penisola araba è reale, ma si manifesta in un contesto preciso».
Che posto ha la guerra in Yemen in questo contesto?
«Un tempo in Yemen c’erano i sunniti al Sud e al Nord, sulle montagne, c’era lo zaydismo, una setta di tipo sciita ma vicina ai sunniti al punto da pregare negli stessi luoghi. Gradualmente la pressione del wahabismo sul Nord ha spinto gli zaydi tra le braccia dell’Iran dando avvio alla sciitizzazione della setta che poi ha preso il nome della sua famiglia più importante, gli Houti. Oggi gli Houti sono una sorta di Hezbollah yemenita che si serve delle stesse tattiche mordi e fuggi per sfidare non Israele ma Riad. Il principe saudita Bin Salman ha tentato di costruire la sua legittimità con un’azione contro gli Houti e ora lì c’è una guerra ignorata dai media ma tremenda. Quando poi al Sisi è andato al potere Riad ha sperato che emulasse Nasser e mandasse l’esercito in Yemen, ma il presidente egiziano ha rifiutato».
La crisi del mondo sunnita corrisponde con la crisi del Golfo?
«Con il crollo del prezzo del petrolio la situazione interna in Arabia Saudita si è aggravata, l’ultima crisi nel settore costruzioni ha visto licenziare stranieri ma anche sauditi. Il “sistema Golfo”, che dal 1973 ha fatto perno su Riad fungendo da motore economico del mondo sunnita, ha ora un problema di distribuzione della rendita a cui è legata anche la retromarcia egiziana. Credo che il greggio non tornerà mai a quota 100 dollari, l’unica con cui i sauditi potevano far girare il meccanismo. Oggi Riad vede allontanarsi da un lato il Nord Africa e dall’altro la Fratellanza, centrata su Ankara e Doha. L’icona della perdita di potere dei sunniti è Aleppo, la caduta di Aleppo sarà la consacrazione della sconfitta saudita. Sullo sfondo c’è l’altra grande sfida: la “visione 2030” di Bin Salman che ambisce a modernizzare il Paese creando una borghesia lavoratrice ha un grosso limite, la sue riforme sono di sostanza ed è difficile farle coincidere con la permanenza del wahabismo. Il grande dramma del Medio Oriente è insomma la frammentazione del sunnismo attraverso l’agenda dei Fratelli Musulmani, il crollo del petrolio, il nazionalismo curdo, la nuova alterigia americana verso i sauditi dovuta allo shale oil. La situazione è grave ma attenzione, sebbene i sunniti stiano perdendo la massa demografica a lungo termine è sunnita».
Che partita gioca la Turchia?
«Per ragioni non chiare anche Ankara sta virando sulla Russia. Il sunnismo turco si è sempre mosso su due assi, quello di Erbakan, che non prendeva la borghesia, e quel mix di Fratellanza e non Fratellanza rappresentato da Erdogan e Gülen che invece ha portato al potere l’Akp. Ora però Erdogan vuole eliminare Gülen e per farlo ha rispolverato l’alleanza tra Fratellanza e nazionalismo turco. Come? Con la questione curda, perché da un lato molti gulenisti come Said Nursi sono curdi e dall’altro il tema cementa il nazionalismo. Per questo per Erdogan i curdi sono oggi la priorità assoluta, assai più della caduta di Assad. Si dice che la svolta sia avvenuta a marzo, quando i servizi turchi hanno scoperto che delle armi date dall’America ai curdi siriani erano passate ai curdi del Pkk e hanno deciso di orientarsi verso i russi».
L’asse tra Riad e Russia è solo tattico o può essere strategico?
«Nulla è detto, perché c’è una convergenza tra russi e sauditi sul prezzo del petrolio, i due Paesi sono alleati contro gli americani. Quanto al suo fronte interno, Mosca ha usufruito delle debolezze dell’Occidente, l’Europa divisa, la Francia senza Presidente, l’Italia confusa, la Brexit, l’opinione pubblica occidentale sedotta dal “putinismo”, ma sotto sotto il Pil russo è pari a quello spagnolo, meno di quelli francese e italiano. Putin è un giocatore ma sul lungo termine i fondamentali economici e politici non ci sono. Gli resta l’alleanza con l’Iran che comunque ha una sua base, perché il nemico islamico di Putin è la Cecenia sunnita, lo spettro russo».
L’Europa che fa, sta a guardare?
«La maggiore sfida dei prossimi anni è la ricostruzione dell’Europa. L’Europa ha sempre funzionato con il motore franco-tedesco, l’arrivo della Gran Bretagna in qualche modo è stato disfunzionale. Chissà che la Brexit non possa servire a rimettere in moto l’ingranaggio. Poi c’è il Medio Oriente, dove bisognerà capire se la debolezza dell’Arabia Saudita si tradurrà in un ridimensionamento del pensiero salafita. Quest’ultima è una questione che riguarda il Medio Oriente ma anche noi, perché quel modo di pensare l’islam che rifiuta la mescolanza con la società europea è terribile, soprattutto in Francia, dove si fonde con la frustrazione sociale delle periferie generando quella forma di nuova rivendicazione che io chiamo “islamo-gauchismo”».
(Francesca Paci/La Stampa 9 dicembre 2016)