Atac demolirà il treno che inaugurò nel ’32 le ferrovie popolari. È l’ultimo atto della rimozione del regime.

Il Comune di Roma fa sapere, con un breve comunicato: «L’edificio detto Colosseo è un vecchio stadio ormai fatiscente e, per questioni di spazio, verrà demolito». Riprendendo la notizia, l’Ansa aggiunge che a difesa dello storico manufatto si è costituito un comitato spontaneo di lavoratori che, «vestiti da centurioni romani, si fanno fotografare a pagamento dai turisti. Si sono levate proteste anche da parte di alcune gattare, in difesa dei loro protetti, ospiti saltuari del Colosseo, ma non ci sono state altre reazioni. Si procederà alla demolizione, probabilmente, già la settimana prossima».

La notizia è falsa, tranquilli, è falsa. Serve bene, però, a introdurne un’altra, vera. L’Atac (Azienda per i Trasporti Autoferrotranviari del Comune di Roma), ha deciso di demolire la carrozza con la quale Mussolini per il decennale della marcia su Roma inaugurò la tratta ferroviaria elettrica Roma-Viterbo. Certo, non è il Colosseo, ma l’atteggiamento mentale di chi vuole distruggere è dello stesso tipo, anche se non della stessa gravità.

Si tratta di un pezzo non banale della nostra storia, e poco ha a che fare con la Marcia su Roma e i fasti con i quali il regime fascista la celebrò nel 1932. Cominciammo a conoscere il nostro Paese, e a viaggiare, grazie ai «treni popolari» voluti dal regime proprio per diffondere la conoscenza dell’Italia fra gli italiani, in scontatissime gite domenicali. Com’è ormai entrato nel luogo comune, le ferrovie fasciste funzionavano bene, ma erano care, in proporzione più di oggi. Dal 1932 vennero dunque istituiti questi «treni popolari», composti di vetture di terza classe che, al prezzo scontato del 70 per cento, portarono a spasso il popolo, per la prima volta nella nostra storia. Non erano viaggi comodissimi, perché i treni popolari funzionavano soltanto nelle 24 ore della domenica. Partivano poco dopo la mezzanotte e tornavano entro la mezzanotte successiva: però, grazie a loro, molti poterono finalmente vedere il mare. Anche senza tirare in ballo l’ampliamento della rete ferroviaria voluta dal governo di allora, fu una rivoluzione sociale importante, e dunque è sbagliato cancellarne le tracce.

Purtroppo, invece, il «vagone di Mussolini» è già stato cancellato, prima ancora della decisione dell’Atac, che evidentemente non ha altro cui pensare, tanto i cittadini romani si spostano già benone, facilmente e con rapidità, lo sanno tutti. Quella carrozza era magnifica alla nascita, grandi poltrone di pelle w lampadari, dovendo rappresentare il duce e la forza del regime. Venne svuotata, chi sa quando, per farne un normale vagone ferroviario, decorato all’esterno da volonterosi writer. Adesso è soltanto un rottame, e l’incuria di ieri non ci consola per quella di oggi.

È un rottame simbolico, non tanto del regime, quanto della distruzione dei suoi simboli avvenuta dopo la guerra. E, se non si distrugge, si tende a nascondere. Valga per tutti il clamoroso esempio del Bigio, come l’hanno chiamato i bresciani. Per i non bresciani dirò che si tratta di una magnifica scultura in marmo di Carrara del grande Arturo Dazzi, alta sette metri e mezzo. Proprio nel 1932 Mussolini la elogiò come perfetta raffigurazione dell’era fascista, e intorno a quella statua venne costruita la fascistissima Piazza della Vittoria, che è rimasta così com’è, nessuno se l’è sentita di distruggerla. Il Bigio, invece, nel 1945 venne faticosamente rimosso e deposto sdraiato in un magazzino comunale, da dove in settant’anni non si è più visto. Invano il sindaco di Salò Giampiero Cipani, come altri suoi colleghi, la chiese a quello di Brescia. Invano la chiesi anch’io per il MuSa, museo di Salò, che dovrà ben occuparsi quel periodo. Nessuna risposta. A Brescia – divisa fra chi sostiene che la città «non può avere paura di una statua» e chi definisce il problema «marginale» si dibatte ancora sul da farsi. Piazza della Vittoria rimane monca, e il Bigio a dormire nei sotterranei. Forse l’Atac, che ha poco di cui occuparsi, potrebbe portarla a Viterbo, al posto della carrozza delenda.

Giordano Bruno Guerri, IL GIORNALE 29 dicembre 2016

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