L’accordo che spartisce la Siria fra i tre ex imperi
L’accordo di tregua Russia-Turchia-Iran non è la fine della guerra in Siria, ma una sorta di spartizione in sfere di influenza tra gli eredi di tre ex imperi.
Erdogan esce ridimensionato, e con lui la politica occidentale che adesso gli deve qualche cosa: da leader spregiudicato presenterà il conto. Ha comunque perso la guerra (almeno la prima parte). Per cinque anni ha proclamato che Assad doveva andarsene, aprendo l’”autostrada della Jihad” per far affluire migliaia di combattenti in Siria con il consenso dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton e i soldi di Arabia Saudita e Qatar. È stato creato una sorta di Afghanistan alle porte dell’Europa per foreign fighters e terroristi da lanciare contro Assad, un autocrate laico e alauita, alleato di Teheran e Mosca, insomma il “nemico perfetto”.
La realtà è che Erdogan, con Stati Uniti, Francia e potenze arabe sunnite, voleva far fuori il regime e ha importato in casa l’instabilità del Medio Oriente come testimoniano dozzine di sanguinosi attentati. Anche l’Europa, non solo Erdogan, dovrebbe riflettere sulla sua arrogante insipienza. È stato poi complice dell’Isis con il traffico di petrolio (come del resto Assad) e ha sostenuto il Califfato contro i curdi siriani: per queste notizie corredate da prove fu messo in carcere il direttore di Cumhurriyet, Dundar. Adesso Erdogan accusa gli Usa di essere a loro volta complici dell’Isis perché non vuole restare solo nella sconfitta che come al solito è orfana mentre la vittoria ha sempre molti padri. L’intesa Putin-Erdogan ha riflessi importanti sul posizionamento occidentale in Medio Oriente. La Turchia è un Paese Nato, con 23 basi dell’Alleanza, armi nucleari comprese, che dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio scorso è in rotta di collisione con Washington cui ha anche chiesto l’estradizione dell’imam Fethullah Gulen, in esilio negli Usa, ritenuto il responsabile del golpe e indicato come ispiratore dell’assassino dell’ambasciatore russo Andrej Karlov ad Ankara.
Erdogan adesso rinuncia alle sue rivendicazioni su Aleppo (simili a quelle su Mosul in Iraq) e in cambio ottiene il via libera contro i curdi siriani per evitare la nascita di un embrione di stato ai suoi confini, vero incubo strategico di Ankara. II cessate il fuoco non significa la fine del conflitto ma il tentativo di congelarlo in alcune zone vitali sulla direttiva Aleppo-Damasco, quella che interessa di più il regime e soprattutto Mosca, che deve proteggere il suo bottino strategico, le basi militari sul Mediterraneo. La verifica sul campo avverrà nel momento in cui si dovranno evitare altre tragedie umanitarie e soccorrere i civili, pur continuando a combattere contro l’Isis, trincerato a Raqqa, e dovendo affrontare l’opposizione di gruppi ribelli, come Al Nusra, concentrati a Idlib ed esclusi dalle trattative di Astana.
Con l’intervento iniziato il 3o settembre 2015, Putin si è piazzato nel cuore del Medio Oriente rilanciando Mosca come superpotenza se non globale almeno euro-asiatica: carte che si giocherà con Donald Trump. L’Iran, alleato storico della Siria e padrino degli Hezbollah, preserva l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco- Beirut. Le Nazioni Unite con l’inviato Staffan De Mistura, hanno accolto con favore l’intesa, da Washington non arrivano reazioni significative e Israele, impigliata nella crisi palestinese, si mostra prudente: da11967 occupa le alture siriane del Golan e questo secondo Mosca può bastare. Sarà Putin il garante di un nuovo ordine? La storia ci ricorda che niente come il Medio Oriente può rendere effimero il destino di solide nazioni e di interi popoli.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2016