Bastoni, pietre, stivali, nasi: nelle pagine dell’autrice tutto viene scomposto. Prefigurando i futuri romanzi.

Marcel Duchamp, nel 1913, inventò un concetto rivoluzionario per tutta la futura arte contemporanea, il ready made, ossia un oggetto comune elevato dall’artista alla dignità di opera d’arte. Un orinatoio, uno scolabottiglie, una ruota di bicicletta, se firmate dall’artista, si trasformano in opere, acquistano un’aura. E dopo Duchamp, e fino a oggi, gli artisti si concentreranno sempre di più sul fascino inquietante delle cose.

Cosa poco notata dalla critica: negli stessi anni, e proprio nel 1917, quando Duchamp firmò il famoso orinatoio, Virginia Woolf scrisse un racconto intitolato Oggetti solidi, che dette il nome a una favolosa raccolta oggi pubblicata da Racconti Edizioni (pagg. 468, euro 19). Questo libro contiene preziose short stories anticipatrici di futuri romanzi, l’interesse per le vite comuni (per esempio Phyllis e Rosamond, che le permetterà di arrivare a scrivere di Clarissa Dalloway e di Mrs Ramsay), l’idea che la scrittura debba essere ritmo, materiali narrativi i più disparati, ma non solo. Rende evidente l’estremo materialismo della Woolf, l’intento di descrivere «la vita nuda come un osso», come una scultura di Giacometti, un quadro materico di Jean Dubuffet, un émpaquetage di Christo. Tenendo conto che perfino per il principe della Pop Art, Andy Warhol, apparentemente spensierato e immerso nella società capitalista americana, un barattolo di minestra Campbell’s, nella sua nudità, parlava della morte.

Così in Oggetti solidi due persone sono dapprima un semplice punto, poi in una rapida zoomata un punto «che possedeva quattro gambe», una specie di organismo unico munito di bocche parlanti. I due personaggi, Charles e John, sono descritti per mezzo di una scomposizione cubista (tecnica che troviamo in numerosi altri racconti, e nella serie di ritratti numerati, appunti della Woolf da utilizzare per progetti più grandi): «le bocche, i nasi, i menti, i baffetti, i berretti di tweed, gli stivali, le giacche da caccia e i calzettoni a quadretti dei due interlocutori si fecero sempre più nitidi». Il dialogo è ridotto a zero, non è interessante quanto le dita che sprofondano nella sabbia o accarezzano ciottoli, è una lotta della materia contro la mente dove a vincere è giocoforza la brutalità della materia, come poi sarà nei romanzi di Samuel Beckett o di Witold Gombrowicz.

E ancora, anticaglie, oggetti nelle vetrine dei negozi che fagocitano l’attenzione e impediscono lo svolgimento della storia, paralizzano la vita, riescono a restituirla solo attraverso il senso inquietante, raccapricciante della materia. Tutto, intorno, è una cosa, un oggetto solido, e anche noi lo siamo, oggetti vivi che cercano il proprio significato e lo perdono osservando gli altri oggetti: «Si guardò attorno per cercare sollievo dalla sua orribile depressione, ma l’aspetto disordinato della stanza lo depresse ulteriormente. Che cosa era quel bastone e quel sacco appeso al muro? E poi quelle pietre?». Le pietre, delle semplici pietre, mezzo secolo dopo, diventeranno i materiali dell’Arte Povera, così come non mancheranno i sacchi appesi al muro. Attenzione, però, a non cadere nella trappola dell’interpretazione simbolica, esattamente come per Marcel Duchamp le cose sono le cose, come per Gertrude Stein «a rose is a rose is a rose», e così il lettore è avvertito dalla stessa Virginia Woolf: «Non riesco a trattare il simbolismo se non in quanto vago, generico. Appena mi spiegano il significato di una cosa, mi diventa noiosa».

Massimiliano Parente, IL GIORNALE, 29 dicembre 2016

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