Quando Benito sfinito dalla politica decise di fare il drammaturgo
Una serie di articoli inediti del giornalista Giorgio Pini racconta dettagli poco noti della vita del Duce: dal rapporto con Arturo Toscanini alla passione per le auto da corsa passando per gli atti di generosità improvvisi.
Nel 1959, il giornalista fascista Giorgio Pini scrisse, per il settimanale ‘Candido’, fondato da Giovannino Guareschi, una serie di articoli su Mussolini aneddotico e uomo di cultura. Concordato il compenso, di 250mila lire, Pini inviò i suoi servizi alla testata, allora rizzoliana: ma i pezzi non furono mai pubblicati. Per quale ragione? Lo spiegò lo stesso Pini, in una lettera ad Alessandro Minardi, che nel 1957 era subentrato a Guareschi, alla direzione del giornale. Il problema era che ‘Candido’ aveva una linea politica, ostile all’Eni di Enrico Mattei, che Pini non condivideva, e ciò gli impediva, per una ragione di coerenza ideale, di firmare gli articoli con il proprio nome. Ergo, i servizi rimasero nei cassetti redazionali e solo oggi abbiamo potuto prenderne visione, grazie alla cortesia del figlio di Minardi, Maurizio, che li ha conservati. Giorgio Pini aveva conosciuto come pochi altri Mussolini, osservandolo per anni da distanza ravvicinata e raccogliendone le confidenze. Nato a Bologna il primo febbraio 1899, squadrista, diresse il foglio del Fascio della sua città, ‘L’Assalto’, ed è noto per essere stato tra i primi biografi di Benito.
La sua carriera giornalistica, passata per la direzione di testate regionali, ebbe un balzo, alla fine del 1936, quando il Duce lo nominò caporedattore del ‘Popolo d’Italia’, incarico che Pini mantenne fino al 25 luglio 1943. Mussolini si fidava totalmente di lui, e gli telefonava, spesso da Palazzo Venezia, per trasmettergli valutazioni e direttive riguardanti il giornale di sua proprietà. Il fido Pini rinvigorì e svecchiò il ‘Popolo d’Italia’, innalzandone la tiratura media, già nel 1938, oltre le 200mila copie.
Nei suoi scritti inediti per ”Candido’, il giornalista bolognese narra il volto nascosto del dittatore, svelando episodi e aspetti dell’uomo rimasti fino a oggi in ombra: dalle sue corse sfrenate in automobile, alle predilezioni per il teatro e la musica, specie quella operistica, con la minuziosa ricostruzione della sua formazione intellettuale, che, da un punto di vista letterario, attingeva al repertorio della poetica carducciana, pascoliana e dannunziana, in voga agli albori del secolo passato.
Pini racconta che, nel 1919, dopo la clamorosa sconfitta delle liste fasciste alle elezioni, Benito, oltre a meditare il ritiro dalla vita politica, pensò di sfogare la delusione gettandosi a capofitto nella drammaturgia, sua passione poco nota, che lo condusse a scrivere testi teatrali. Parte di queste opere è rimasta incompiuta, o è andata persa. Ma, durante il regime, Mussolini, in collaborazione con il commediografo e regista Giovacchino Forzano, firmò due drammi, ‘Campo di maggio’, e ‘Villafranca’, rappresentati in Italia e poi nella Germania hitleriana, nella traduzione tedesca.
Lo sapevate, ad esempio, che il Duce coniò vari neologismi, che sono entrati, d’imperio (è il caso di dire), nel lessico comune? Dalla sua mente, infatti, sortirono nuovi vocaboli, come cruciale, inequivocabile, controproducente, autista, velleitario. Ma è l’intera sua vicenda biografica a uscire, non soltanto rivisitata, ma arricchita, dalla preziosa testimonianza diretta di Giorgio Pini. Come è per l’episodio dell’intervento salvifico svolto da Mussolini, allora socialista, a Trento, nel 1909, per sventare le trame di una strage contro gli austriaci. Al tempo, nel Trentino non ancora unito all’Italia, Benito reggeva la locale Camera del Lavoro stringendo rapporti di amicizia e di collaborazione con il leader degli irredentisti di matrice socialista, Cesare Battisti.
Rivela Pini che “un gruppo di giovani estremisti capeggiato dal falegname Cesare Berti e composto dal fotografo Pichi, dal muratore Grüber, da Italo Conci, da Gino Buffa, da un cesellatore e da uno studente, tutti irredentisti, deciso a far saltare la sede della polizia austriaca, aveva preparato una grossa bomba con venticinque chili di dinamite. I congiurati avevano potuto procurarsi l’esplosivo e le capsule detonanti, sottraendoli con l’aiuto di complici da un cantiere dell’impresa che costruiva in Val di Non l’acquedotto di Mezzacorona”.
Ecco cosa accadde: “Quando l’azione fu imminente, nessuno dei capi socialisti trentini, avvertiti di ciò che stava per succedere, riuscì a convincere quei giovani a recedere dal loro proposito, che avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Invano si adoperarono verso di loro l’avvocato Piscel, il deputato Avancini e anche lo stesso Cesare Battisti. Benché avvertito all’ultimo momento, fu solo Mussolini, che, intervenuto energicamente e con ragioni rese più efficaci dal conquistato prestigio personale, impose agli ostinati di rinunciare al gesto, e fu da loro ubbidito”. Non meno interessanti alcuni retroscena, estratti dalla memoria diretta degli eventi serbata dall’autore di questo excursus biografico.
Da poco divenuto capo del governo, il 22 dicembre 1922, su interessamento del filosofo Giovanni Gentile, Mussolini ricevette, a Palazzo Chigi, in udienza, il sacerdote, organista e compositore di musica sacra Lorenzo Perosi, «in quel tempo ossessionato dall’idea che la Chiesa dovesse essere riformata in senso protestante e nazionale». Il colloquio, racconta Pini, imbarazzò, e non poco, il dittatore in erba: «Perosi si presentò accompagnato da alcuni amici preoccupati di controllarlo, e insistentemente sollecitò il Duce a farsi promotore di una chiesa di Stato, reiterando la sollecitazione anche dopo la risposta che la cosa non era possibile. Invano Mussolini tentò di distrarlo facendogli l’elogio delle sue composizioni musicali e incitandolo a dedicarsi a nuove creazioni. Tutto fu inutile. Il Maestro protestò e finì col chiedere il passaporto per potersi recare a Londra, dove voleva studiare a fondo la chiesa anglicana. Concluse che non sarebbe tornato dall’estero fin quando in Italia non fosse stata applicata la riforma da lui sostenuta. Nel congedarlo, francamente Mussolini gli disse: No, Maestro. L’Italia sarà riformata politicamente, ma non religiosamente». Perosi, che aveva già sofferto nella sua vita di disturbi nervosi, a quel tempo stava attraversando una violenta crisi spirituale aggravatasi in seguito alla morte della madre. Ciò determinò l’emissione nei suoi confronti, da parte del Tribunale di Roma, di un decreto di interdizione che venne revocato nel 1930. Il sacerdote, peraltro, soltanto nel 1936 ricevette da Pio XI il permesso di poter celebrare nuovamente la messa. Nel frattempo, era stato nominato accademico d’Italia, a riconoscimento del suo grande talento artistico. Un altro episodio, che Giorgio Pini contribuisce a ricollocare nei suoi esatti contorni, riguarda l’antifascismo di Arturo Toscanini, che la vulgata dipinge ancora oggi come l’eterno nemico del Duce.
In realtà, se è noto che il grande direttore d’orchestra si fosse candidato, nelle liste fasciste, con Benito e Filippo Tommaso Marinetti, alle elezioni politiche del 1919, non altrettanto risapute sono le ottime relazioni che questi mantenne con il regime e con il suo capo, almeno per un decennio. Ossia, fino a quando un evento spiacevole lo schiaffeggiamento di Toscanini, avvenuto al Teatro Comunale di Bologna, il 14 maggio 1931, e causato dal suo rifiuto ad eseguire Giovinezza e la Marcia Reale ruppe l’idillio. Pini così ricostruisce la vera storia del lungo e felice connubio tra Mussolini e il musicista: “Nel marzo del ’23, essendo il Duce in visita alla Scala, durante una prova generale diretta da Toscanini, il Maestro lo accolse sul palcoscenico e gli presentò la cantante Toti Dal Monte. Nel novembre dello stesso anno si rivolse al Duce per ottenere dalla stampa una soddisfazione contro l’accusa mossagli da un critico musicale di ostacolare l’affermazione di artisti e direttori giovani. Nel maggio del ’24 chiese e ottenne che Mussolini assistesse alla Scala alla prima rappresentazione del Nerone di Boito, da lui diretta. Nel maggio del ’29 gradì molto un telegramma con il quale Mussolini si congratulava del grande successo ottenuto dall’orchestra della Scala in un giro di concerti all’estero. Ed è capitato a noi di rinvenire fra un cumulo di carte e libri nelle disastrate stanze della Rocca delle Caminate, uno spartito musicale recante in testa al primo pentagramma una calda dedica di Toscanini al Capo del governo». Alcuni ulteriori aneddoti, che Pini offre, contribuiscono a delineare altri tratti tra i meno conosciuti del carattere del Duce. Uno dei questi riguarda la sua proverbiale memoria: «Nei primi anni del regime, un giorno gli fu riferito che il giurista Vittorio Scialoja, suo collaboratore in campo diplomatico, parlando con alcuni colleghi senatori e lasciandosi andare a una delle sue frequenti battute ironiche, aveva detto che non sempre il Duce stava con la testa a posto. Ciò non impedì affatto che Mussolini continuasse a utilizzare l’opera del grande giurista sia all’interno sia all’estero, e che Scialoja si dimostrasse sempre fermo sostenitore del regime in Senato, sebbene Mussolini, la prima volta che Scialoja era capitato in udienza da lui, non avesse rinunciato ad accoglierlo con questa frase sarcastica di sottintesa replica: Spero, senatore, che oggi mi troverete con la testa a posto!». Un altro carattere distintivo dell’uomo era rappresentato dai suoi slanci di spontanea generosità verso i più derelitti, avendo egli stesso sperimentato la povertà e la fame. Rievoca Pini «Nel novembre del ’21 notò davanti al portone di casa a Milano un giovane male in arnese e dalla barba incolta, che più volte si fece trovare appoggiato a un albero, lo sguardo fisso su di lui, come in attesa. Senza dir parola, accennava solo a un timido saluto. Un giorno decise di chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, e quello, incoraggiato, gli confessò di essere un ex ufficiale disoccupato, con famiglia alla fame. Mussolini gli disse di attenderlo, salì in casa, si fece dare da Rachele pane, biancheria usata e indumenti smessi; portò il tutto all’uomo che attendeva, e gli diede appuntamento al giornale. Là, con alcune telefonate, riuscì a procurargli lavoro come taxista. Mesi dopo, essendo andato in redazione in taxi, si vide rifiutare l’importo della corsa dall’autista, il quale gli disse: Non mi riconoscete più? Nello scorso inverno mi avete salvato la vita e avete salvato la mia famiglia procurandomi voi stesso questo lavoro. Permettetemi almeno di portarvi una volta gratuitamente perché non potrò mai disobbligarmi in altro modo”.
Un sorprendente aspetto di Mussolini riguarda infine la sua ingenuità, ossia la tendenza a cadere nei raggiri di chi patrocinava, presso di lui, i propri interessi. Accadde, ad esempio, che, nel 1938, il pittore Vico Viganò riuscì a strappargli il via libera all’edificazione, accanto al Duomo di Milano, di un campanile neogotico alto 164 metri. Un mostro di 2.500 metri cubi di marmo, per una spesa preventivata di 120 milioni di lire dell’epoca. Ma ecco il racconto di Pini: “Il progetto Viganò era costoso oltreché anacronistico, ma l’autore, scavalcando gli organi competenti, era riuscito a farsi ricevere dal Duce e a perorare presso di lui la sua causa con tal calore da indurlo ad annunciare una favorevole decisione, che sbalordì le autorità milanesi interessate. Fra l’altro, l’erezione del campanile implicava l’impiego di marmo di Candoglia in una quantità materialmente indisponibile”. Come finì la vicenda? “Ben presto un memoriale fatto pervenire a Mussolini a mezzo del ministro Bottai, lo convinse di aver agito troppo precipitosamente, e lo indusse a revocare l’annunciata decisione. Egli non esitò a spiegare a un collaboratore che per buona fede si era lasciato ingannare dal progettista, il quale si era ben guardato dall’avvertirlo che l’innalzamento del campanile avrebbe implicato una radicale modifica» del piano regolatore. Giorgio Pini, durante la Repubblica sociale italiana, dall’ottobre del 1944, fu sottosegretario al ministero degli Interni. Nel primo dopoguerra, fu tra i fondatori del Movimento sociale italiano, dal quale tuttavia si distaccò molto presto, in polemica con la tendenza di destra di quella forza politica. Egli rimase infatti, fino all’ultimo, ciò che era sempre stato: un mussoliniano di sinistra. Si spense, nella sua Bologna, il 30 marzo 1987.
Roberto Festorazzi, IL GIORNALE, 7 gennaio 2017