Amartya Sen: “Globalizzazione finita? No, i più forti aiutino gli emarginati”
“Europa tentata dall’egoismo”. Intervista del Corriere al premio Nobel per l’Economia indiano, in Italia per i dieci anni della “Fondazione con il Sud”.
«Non credo che nel mondo di oggi sia in corso uno scontro tra globalizzazione e antiglobalizzazione. Se pensiamo al movimento no global che si presentò prima al G8 di Genova nel 2001, poi in altre città, era il massimo della globalità. No, lo scontro è tra diversi modelli di sviluppo e di globalizzazione…». Amartya Sen parla lentamente, e non smentisce la sua attenzione di una vita ai temi sociali: quelli che lo hanno fatto definire «La Madre Teresa degli economisti», sebbene non gradisca il paragone con la mitica suorina dei diseredati di Calcutta. L’economista-filosofo indiano, premio Nobel per l’Economia nel 1997, docente a Harvard, parla di Sud e di Nord dell’Italia e del mondo, di Donald Trump, del tumore che lo colpì da ragazzo. E di immortalità.
Il suo nome, Amartya, in bengalese significa «immortale». E lui, agnostico di 83 anni, ammette che gli piacerebbe un’immortalità «che non significa essere ricordato, ma, come dice Woody Allen, significa non morire…». Sorride, ironico. L’intervista col Corriere avviene di fronte a oltre trecento persone, nell’aula magna della Facoltà di Architettura a Roma Tre, per i dieci anni della Fondazione con il Sud. E saltando dal Cinquecento al presente, disegna un mondo nel quale rimbalzano luoghi comuni che si sforza di smentire.
Professor Sen, condivide il cliché di un Sud del mondo in crisi, e di un Nord costretto a aiutarlo ma riluttante a farlo?
«In parte. Si teorizza troppo sul divario tra Nord e Sud: i divari non sono perenni. Il parametro Nord-Sud è in realtà quello del privilegio e dell’assenza di privilegio. E in questa situazione, il Nord dovrebbe avere un obbligo di solidarietà, perché può permetterselo».
Le sembra che l’Europa stia reagendo così? Non è una risposta segnata dall’egoismo?
«Vedo una forte tentazione a replicare con l’egoismo. In tema di immigrazione, per esempio, non mi pare che l’Europa aiuti abbastanza l’Italia. E tuttavia c’è anche una questione di democrazia. Un governo non può fare più di quanto la gente gli consente. E in questo caso spunta un problema di educazione non nel senso di istruzione, ma di formazione, di cultura. È un punto importante, se pensiamo alle conseguenze che potrà avere l’elezione di Donald Trump, o quanto è successo con la Brexit. In questi casi hanno prevalso molti pregiudizi».
Non crede che Brexit, Trump, e quello che si definisce populismo mostrino un rifiuto della globalizzazione? Persone come Bill Gates sostengono che è inarrestabile. Lei?
«Di certo la globalizzazione non è finita. Ma quanto accade secondo me ha poco a che fare con la globalizzazione. Guardiamo a qualche anno fa, alle proteste. Ricordiamo Genova e il G8 del 2001. Il movimento no global era senz’altro il più globalizzato del mondo. La gente veniva perfino dalla Nuova Zelanda».
No global globali?
«No global che in realtà inseguivano un diverso modello di globalizzazione. Lo scontro è su quello. Pensiamo ai cambiamenti economici che avvengono in continuazione, e chiamiamoli come vogliamo. Bisogna comprendere il ruolo dello Stato. Ci sono vincitori e perdenti in qualunque fase di transizione. Ebbene, i gruppi più forti, Stato, comunità, società, possono e debbono fare qualcosa per assistere le persone emarginate. Altrimenti si sentono abbandonate. Arriva un Trump, fa emergere la loro rabbia e le fa rivoltare contro l’establishment».
L’opinione pubblica europea oggi sembra ossessionata da immigrazione, terrorismo e disoccupazione. Quale tra questi problemi le appare più destabilizzante?
«Non vorrei rispondere, perché non si può scegliere tra queste tre cose. Fatico a considerarle separatamente. A mio avviso sono tutte questioni serie. Ho passato tutta la vita a compiere scelte difficili. Ma non devi scegliere tra tè e caffè, devi evolverti. Comunque, credo che la disoccupazione sia una questione molto seria. Non la più seria, ma molto seria. E che vada aggredita».
Su questo punto l’Italia, soprattutto il Sud, presenta problemi più gravi: in particolare sulla disoccupazione giovanile.
«Sì, ma attenzione. Credo che un problema del Sud sia anche quello di non fossilizzarsi in un certo fatalismo, di non dare le cose per scontate e immutabili. Questo dovrebbe portare a reagire per cambiarle. Credo profondamente in questa capacità dell’uomo di affrontare e superare le difficoltà. A pensarci bene, è quanto cercai di fare quando, studente di diciotto anni, a Calcutta mi diagnosticarono un tumore e dissero che avevo il 15 per cento di possibilità di sopravvivere. Ho imparato da quell’esperienza».
Ha imparato che bisogna reagire?
«Non solo reagire: qualcosa di più. Ho imparato che intanto bisogna guardarlo in faccia. E all’inizio il problema era che il dottore continuava a sostenere che non avevo niente. Ebbene, ho imparato che bisogna battersi e superare i momenti difficili. Credo che la cultura e la mentalità siano importanti, e a volte quello che non mi piace in certe culture meridionali è la tendenza al fatalismo, alla rassegnazione. Anche se so bene che i comportamenti si spiegano anche con le condizioni materiali nelle quali si vive».
Professor Sen, Amartya, l’«immortale», lei è agnostico. Ma a parte la religione, c’è qualcosa nella quale nutre una fiducia profonda?
«Non saprei…».
È già una risposta.
«Sarei felice se lo fosse, ma è troppo limitativa. No. Io credo nella ragione umana. E sono convinto che quando le situazioni cambiano non esistono rispose immutabili, e che il ragionamento ci aiuta a trovare quelle giuste, a capire la realtà e a cambiarla. Sono anche convinto che abbiamo degli obblighi morali, e che per rispettarli non ci sia bisogno di Dio. So che questo non piacerà a molti, ma lo penso».
Insomma, la sua fede è la ragione umana…
Si potrebbe dire così. Quanto all’immortalità contenuta nel mio nome, sono della stessa opinione di Woody Allen. Per me essere immortale non significa essere vivo nel ricordo, ma non morire…».
(Massimo Franco, Corriere della Sera 11 gennaio 2017)