La speranza incompiuta di Obama
Venerdì prossimo uscirà di scena il primo presidente nero. In otto anni ha risollevato l’economia ma lascia un’America più debole nel mondo. L’analisi del direttore de “La Stampa” Maurizio Molinari.
Il 20 gennaio 2009 Barack Obama giurava come 44° presidente degli Stati Uniti promettendo di unire l’America, battere la recessione, ridare speranza alla classe media, riconciliarsi con gli alleati e tendere la mano ai nemici. Ad otto anni di distanza l’America è più divisa di allora, la recessione è stata battuta, la classe media ha eletto Donald Trump, i rapporti con gli alleati sono tesi e i nemici sono aggressivi come mai avvenuto dal termine della Guerra Fredda. Il bilancio in chiaroscuro riassume successi e fallimenti di un presidente che sarà ricordato per l’impegno dedicato a risollevare la nazione così come per aver in gran parte abdicato alle sue responsabilità internazionali, contribuendo a innescare l’attuale domino di crisi e guerre in più regioni.
Il maggior risultato del presidente che viene dalle Hawaii è aver risollevato l’economia dalla recessione in cui precipitò con la crisi finanziaria del settembre 2008. Fu proprio il collasso di Lehman Brothers a segnare la sfida elettorale con il repubblicano John McCain perché gran parte degli americani la attribuì all’incapacità dell’amministrazione Bush di mettere ordine a Wall Street dopo lo scandalo di Enron nel 2002. Vittima di speculazioni e fallimenti generati dalla finanza spericolata, la classe media vide in Obama un possibile salvatore ed obiettivamente le riforme seguite alla sua elezione hanno ridato stabilità ai mercati e fiducia agli investitori, portando ad una ripresa dell’economia iniziata con il salvataggio del settore dell’auto dal collasso ed accompagnata da un aumento dei posti di lavoro che dura oramai da ben 75 mesi.
Alla sconfitta della recessione Obama ha accompagnato l’impegno per sanare le ferite sociali più profonde, che aveva conosciuto di persona da giovane a Chicago assistendo come «community organizer» le famiglie in difficoltà per conto di alcune chiese locali. Questo tentativo di «unire la casa divisa», come disse nel discorso di Springfield in Illinois lanciando la sfida presidenziale nel segno di Abramo Lincoln, affiancava la lotta alla povertà al desiderio di sconfiggere le lacerazioni razziali fra bianchi e neri. Per il primo presidente afroamericano, figlio di un keniota e una bianca del Kansas, si è trattato di una sfida politica che rifletteva la propria identità ovvero schiudere alla nazione l’orizzonte di una società post-razziale capace di fondere bianchi e minoranze andando ben oltre la tolleranza reciproca. È stato questo il cuore dell’«American Dream» di Obama che ha attirato l’interesse di più popoli e nazioni perché implicava la visione rivoluzionaria di un nuovo legame fra Nord e Sud del mondo, simile all’identità multietnica delle isole del Pacifico dove è nato. Ma è proprio su questa sfida che la sua «speranza» si è infranta raccogliendo risultati importanti e ciononostante parziali: non c’è dubbio che la borghesia afroamericana ha vissuto otto anni straordinari con molti dei suoi volti – da Eric Holder a Cory Brooker da Valerie Jarrett alla First Lady Michelle – capaci di parlare all’intera nazione ma ciò non ha coinciso con la sconfitta di povertà ed emarginazione nelle comunità afroamericane più deboli, dall’Alabama al Nord della Florida fino alla stessa South Chicago da dove proprio la famiglia di Michelle proviene. Queste comunità hanno vissuto la presidenza Obama come un’occasione perduta così come gli ispanici – la minoranza che cresce più velocemente – lamentano la mancata promessa della riforma dell’emigrazione: per ben due volte Barack si è impegnato a firmarla senza poi riuscire a farlo. Neanche l’Obamacare, la riforma della Sanità, è stata percepita dai disagiati come decisiva ed altre riforme, dai voucher anti-povertà all’educazione, hanno avuto esiti parziali. Il successo nella battaglia sulle unioni gay resta invece un risultato indiscutibile, frutto del secondo mandato e della determinazione del vicepresidente Joe Biden: dalle sentenze della California alla Corte Suprema fino ai voti del Congresso i diritti dei gay si sono affermati come nuova frontiera dei diritti civili perché Obama ha saputo comprendere ed interpretare questa istanza, proveniente anzitutto dalle nuove generazioni.
Opposto è stato invece l’esito della battaglia per la limitazione dell’uso delle armi da fuoco perché Obama ha dimostrato di non comprendere quanto il rispetto del Secondo Emendamento della Costituzione resti radicato nell’identità collettiva nonostante le orrende stragi consumate da killer di ogni estrazione dentro scuole, atenei, cinema ed altri luoghi pubblici grazie alla facilità di acquistare armi di ogni tipo. Sono tali successi e sconfitte che consegnano alla Storia la presidenza di Obama come segnata anzitutto da un’agenda nazionale, interna, condizionata dall’identità stessa di chi l’ha guidata. Barack ha fatto di tutto per «unire la casa divisa» ma c’è riuscito solo in parte.
A fronte di tante risorse spese sul fronte interno, sulla scena internazionale Obama è stato protagonista del maggiore arretramento strategico americano dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Estraneo al legame ideale con l’Europa, ostile politicamente all’idea di un’America impegnata a difendere le libertà altrui, segnato dall’opposizione personale all’intervento in Iraq e contrario a battersi a viso aperto contro il jihadismo autore dell’attacco dell’11 settembre 2001, Obama ha elaborato una proiezione dell’America nel mondo basata su tre principi: guerra segreta al terrorismo, dialogo strategico con i nemici, intese occasionali con gli alleati solo nel proprio interesse nazionale. La guerra segreta al terrorismo, basata sull’impiego congiunto di intelligence, truppe speciali e droni, ha portato ad eliminare Osama Bin Laden e a decimare Al Qaeda, ma si è dimostrata inefficace contro i nuovi gruppi jihadisti come lo Stato Islamico. Combattere in silenzio ha portato Obama a scegliere di non nominare i jihadisti come nemici, arrivando a tacerne l’identità anche quando hanno portato morte e distruzione in America: da Fort Hood a San Bernardino fino a Orlando.
L’errore del ritiro totale delle truppe dall’Iraq al termine del 2011 – a cui il Pentagono tentò di opporsi – ha consentito a Isis di formarsi nel deserto dell’Anbar, la scelta di non includere i jihadisti fra i nemici ha declassato il pericolo del Califfo agli occhi degli americani e la debolezza della campagna aerea anti-Isis iniziata nell’estate 2014 ha evidenziato la carenza di volontà nel combattere un avversario sanguinario. Tutto ciò è frutto dell’errore strategico che Obama commette subito, all’inizio del 2009, quando sceglie di dialogare con i fondamentalisti islamici: i Fratelli musulmani in Egitto nel mondo sunnita, l’ayatollah Ali Khamenei nell’Iran sciita. Si tratta dei nemici giurati dell’America e dell’Islam moderato, ma Obama è convinto di poterli trasformare in partner. In Egitto ciò porta alla caduta di Hosni Mubarak, alleato fedele dell’America per oltre 30 anni, ed alla conseguente crisi con i leader sunniti, dal Golfo al Nordafrica. In Iran determina la sconfitta della rivolta di piazza dell’«Onda verde» nel giugno 2009 e l’accordo del luglio 2015 con Teheran sulla legittimità del suo programma nucleare, considerato una minaccia esistenziale dall’alleato israeliano. Ma il legame, morale e strategico, con lo Stato Ebraico non interessa più di tanto a Barack, che sceglie la realpolitik con il governo di Benjamin Netanyahu, ma spinge partito democratico e amministrazione su posizioni ostili agli insediamenti in Cisgiordania come nessun predecessore aveva fatto. Dall’indomani degli accordi di Oslo del 1993 i presidenti Bill Clinton e George W. Bush avevano immaginato una soluzione del conflitto israelo-palestinese basata su concessioni di entrambe le parti, Barack ritiene che a farle debba essere solo lo Stato Ebraico. Obama sfida gli alleati del Golfo e snobba quelli di Gerusalemme perché li percepisce come un ostacolo alla sua visione del mondo, basata sulla mano tesa al nemico. Gli alleati per lui sono utili in poche e singole occasioni: quando gli consentono di non essere in prima fila nell’intervento per rovesciare il regime di Gheddafi in Libia, quando lo sostengono nel duello europeo con la cancelliera tedesca Angela Merkel su crescita e rigore, quando ne ha bisogno nella Nato per fronteggiare la Russia di Vladimir Putin dopo l’annessione della Crimea.
Ma è proprio il Cremlino ad avvantaggiarsi degli errori compiuti da Obama: invia i militari in Siria, estende l’influenza in Medio Oriente, si affaccia in Nordafrica e torna da protagonista nel Mediterraneo per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda. Ciò che colpisce è come Mosca diventi il punto di riferimento tanto degli avversari – Iran, regime di Assad – quanto degli alleati – Paesi sunniti, Israele e Turchia – di Washington a conferma che Obama non ha conquistato i primi ed ha perso i secondi. A causa di oscillazioni e incertezze come il mancato intervento in Siria nel 2013 contro Bashar Assad colpevole di uso di armi chimiche contro i civili. L’ecatombe di 300 mila vittime in Siria e la nascita dello Stato Islamico sono destinate a restare come macchie indelebili nell’eredità di Obama. A ben vedere l’unico successo della strategia di apertura ai nemici arriva da Cuba, grazie alla ripresa delle relazioni con L’Avana di Raul Castro. In Estremo Oriente la situazione è ancora più incandescente del Medio Oriente perché la Corea del Nord è riuscita durante la presidenza Obama a potenziare l’arsenale atomico, arrivando a minacciare il Giappone e ad aggredire unità navali sudcoreane senza reazioni significative di Washington, mai andata oltre la richiesta diplomatica a Pechino di frenare Pyongyang. Nulla da sorprendersi se anche nel Pacifico gli alleati vecchi e nuovi di Washington, dall’Australia al Vietnam, guardino a Donald Trump augurandosi un veloce ritorno dell’America da protagonista sulla scena internazionale.
L’ultimo miglio della presidenza Obama è stato il più amaro e inatteso: Barack aveva indovinato che il tema delle diseguaglianze sarebbe stato decisivo nell’Election Day, ma ciò non è bastato a Hillary per prevalere e così, come ha scritto David Plouffe già architetto della vittoria nel 2008, l’alfiere del «change» è diventato Trump ovvero l’antitesi di Obama. La reazione di Barack a questo smacco è stata una transizione iniziata promettendo «piena collaborazione» al successore, ma poi degenerata in rissa aperta, con una raffica di iniziative delle Casa Bianca – su Israele, Russia, energia e industria dell’auto – mirate a lasciarsi dietro un campo minato. Mai un presidente uscente si era comportato in maniera così aggressiva con quello appena eletto e la spiegazione svela l’ambizione di Barack: diventare il nuovo leader dei liberal d’America, scalzando i Clinton dal ruolo che hanno ricoperto dal 2001, per pianificare il riscatto dei democratici nell’Election Day del 2020.
(Maurizio Molinari, LA STAMPA 15 gennaio 2017)